McItalia.

“I contadini italiani invadono McDonald’s”. Parola del ministro Luca Zaia, che sul suo blog decide di commentare a questo modo il lancio nella arcinota catena di fast food della linea di panini e insalate McItaly, con soli ingredienti nostrani (Asiago Dop, Bresaola della Valtellina Igp, carne e olio extravergine nazionale etc.). Questa sì che è “una svolta identitaria alla nostra agricoltura”; questo sì che è consegnare alle nuove generazioni una “memoria gustativa di impronta italiana”. Questo sì, da ultimo, che sono le “grandi ambizioni” di una “grande operazione culturale” che mira “alla qualità“.

C’è chi propone di valutare l’iniziativa del ministro attraverso Spinoza.it (ad esempio: “Questo nuovo panino ha grandi ambizioni”. Sappiamo che un pezzo di carne italiana, se si fa addentare dalla persona giusta, può anche diventare ministro, oppure “Le nuove generazioni avranno una memoria gustativa di impronta italiana” dice Zaia. Poi sviene per lo sforzo). Io invece suggerisco un esperimento mentale: come valuterebbe Zaia se il governo cinese decidesse di distribuire in tutti i Pizza Hut del mondo una pizza fatta con pasta cinese, pomodori cinesi, mozzarella cinese e farcita con dell’ottimo manzo stufato alla cinese (un tocco esotico – anzi, identitario – non guasta mai) e la esportasse con il nome, magari, di MaoPizza? Un modo per affermare l’identità culturale della tigre asiatica o “un segno della bancarotta morale” del Paese

Se dovesse scegliere la seconda ipotesi (il che è probabile, visti i recenti “accordi”), il ministro sarebbe in sintonia con il Guardian. Che, ad ogni modo, rivolge l’accusa non alla Cina, ma al governo Berlusconi, aggiungendo che Zaia non avvicinerebbe mai alla bocca una simile diavoleria “se non ci fosse l’occasione di venire fotografato”. 

Capisco che gli introiti derivanti dalla vendita di mille tonnellate di prodotti agricoli italiani a McDonald’s facciano gola, ma per carità, non li si confonda con cultura e tradizioni. A meno che non sia l’ipocrisia la reale “impronta italiana” che il ministro vuole mettere in bocca a chi, da Parigi a Shangai, ne addenterà il prodotto.

9 pensieri su “McItalia.

  1. Rendere ciò che è brutto meno brutto usando qualcosa che al popolo suggerisce bontà (oppure quello che deve suggerire, poca differenza fa).
    Esempio: descrivere il fascismo tramite la guerra civile italiana, sfruttando qualche caso di crimine dei partigiani. Si usa un bambino ucciso da un partigiano, ed i bambini si sa, fanno sempre tenerezza. A meno che non siano vietcong, ovviamente. Di punto in bianco il cattivo fascista è meno cattivo. Anzi, quasi quasi ci piace pure.

    Fabio, sono solo io oppure anche tu leggi in questo comunicato del prossimo governatore del Veneto un segnale molto chiaro? I dazi si impongono a seconda delle occasioni. MacDonald’s sicuramente si sarà fatta 4 conti in tasca ed avrà detto “diamo a questi babbei un contentino; nel frattempo io continuo comunque a produrre tutto il resto del panino come ho fatto prima. E l’asiago, gradatamente lo macdonaldizzo. Figurati se se ne accorgono”.

  2. Mi spiace dirlo ma questa volta sono completamente in disaccordo con te, Fabio. Beh, a parte il riferimento a “imprinting gustativo”, di cui si parla sul blog del ministro, che sembra una stupidaggine propagandistica anche a me. Un accordo tra la più grande catena di fast food al mondo e i nostri agricoltori è veramente una svolta identitaria nella nostra agricoltura. So che non è facile da comprendere a chi non ha dimestichezza con le discipline del management. L’impresa che corre da sola, che guarda tutti i possibili palyers con diffidenza e che opera secondo le logiche tradizionali è un concetto completamente superato. La reti di impresa, la collaborazione nello sviluppo e nell’innovazione (non pensare solo all’innovazione intesa come progresso tecnologico, è innovazione anche nuovi modi di produrre o di fare mercato), lo studio attento delle dinamiche tra parti in gioco e i progetti di collaborazione tra imprese sono ormai le strategie vincenti, soprattutto per le piccole imprese. Queste logiche fanno molta fatica ad essere comprese nel nostro paese, pieno zeppo di piccole e medie imprese spesso a gestione familiare, dove permane una cultura industriale ancora antiquata e tradizionalista. E’ un fatto assodato che l’unico modo che una piccola impresa ha di generare valore aggiunto al proprio prodotto nel mercato globale è quello di collaborare con altre imprese al fine di raggiungere un vantaggio comune (esistono eccezioni a questa regola ma sono molto rare). Un accordo di collaborazione tra le nostre piccole e medie imprese agricole e un colosso come McDonald’s è una grande svolta soprattutto culturale che apre prospettive veramente interessanti, anche dal punto di vista comunicativo del marchio “made in italy”. Il paragone che fai con la pizza cinese non regge assolutamente, per una serie infinita di motivi che vanno dal fatto che i cinesi non hanno costruito un brand “made in china”, e non sembrano nemmeno molto interessati a svilupparlo, al fatto che hai elencato prodotti che non sono assolutamente il valore aggiunto della produzione cinese (magari potresti lanciare l’idea di un panino al bambù e al manzo stufato con un marchio made in oriental… potrebbe funzionare, ma mi sembra che McDonald’s avesse già lanciato un panino che richiamava i sapori orientali) 🙂

    • Cortesemente. Il punto non è relativo alla razionalità economica dell’accordo. Il punto è relativo alla coerenza di chi a parole si fa difensore dell’integrità del nostro patrimonio gastronomico tradizionale e poi incentiva la collaborazione tra un colosso anonimo con radici estere e la grande distribuzione italiana, che di per sé ha poco a che fare con quella cultura del mangiare bene che viene spesso ricamata all’interno di tanta demagogia. Credete che solo perché è prodotto in Italia del pessimo Asiago improvvisamente diventi un bene da difendere? Parliamo della bresaola prodotta con carne argentina? Ridicolo poi fare quelli che brucerebbero i chioschi del Kebab, no? Che poi ci siano dei benefici economici nel far mangiare la roba prodotta da noi a Anaheim e Phuket, concordo ma è banale. Che si tengano anche le schifezze cinesi e mediorientali, se riescono a penetrare con efficacia; se conta solo l’arena del libero mercato, godetevelo.

  3. Davide, concordo: l’esperimento mentale è debole (ma è un esperimento mentale, in filosofia analitica si fanno coi semi di persone e gli zombie…). Tuttavia non capisco il parallelo svolta culturale-mossa azzeccata in termini di marketing o di strategia aziendale. Passi il discorso economico, ma l’altro mi sembra pura ipocrisia. Se mi parli di “cultura” aziendale nello stesso modo in cui si parla di “cultura” in senso più ampio beh, allora sono io a dirti che “il paragone non regge assolutamente”. Soprattutto in un Paese come l’Italia, dove se la prima latita, la seconda ha una storia di ben altra portata.

  4. Non capisco esattamente perché ci debba essere questa differenza tra la Cultura e la cultura aziendale. Pensi che la prima non influenzi la seconda e viceversa? Scegliere una determinata strategia piuttosto di un’altra non credi che sia influenzato direttamente dai nostri valori e costumi? Non credi che cambiare il modo di fare impresa in un settore pesantemente influenzato da piccole imprese a gestione familiare significhi anche un cambiamento culturale? Non è che se la cultura aziendale ha come fine il profitto allora deve essere separata dal più nobile retaggio di usanze, costumi e valori. Sono parti integrate tra loro e, se anche la cultura d’impresa si può considerare sicuramente un sottoinsieme della cultura di un popolo, di sicuro quest’ultima finisce per essere influenzata dalla prima. L’accordo di marketing è solo un aspetto importantissimo (un accordo di marketing non è mai una cosa semplice, nasconde pesanti riflessioni e profondi aspetti tattici oltre che economici) che da luogo a un fenomeno che potrebbe essere molto più complesso e interessante, soprattutto nel caso in cui il panino fosse venduto anche all’estero. Secondo me il fatto che le imprese agricole del nostro paese facciano parte della catena di fornitura (la supply chain) di McDonald’s porterà all’adozione di best practice che già sono utilizzate da altre aziende in altri paesi e che magari sono più competitive di noi. Ora si può ben discutere se queste best practice ci piacciano oppure no, abbiano più o meno aspetti negativi, certo mi sembra azzardato dire che a queste non segua un cambiamento culturale, soprattutto in PMI a gestione familiare o che appartengono a distretti industriali rurali.

  5. Sicuramente cultura aziendale e cultura nazionale non possono non essere frutto di base comune e contaminarsi, non può essere diversamente. Trovo allora abbastanza coerente che i nostri prodotti vengano distribuiti da un marchio straniero famoso nel mondo per fornire cibo omologato e di scarsa qualità a basso prezzo. Intendiamoci, io al Mac Donald ci vado ogni tanto a mangiare qualcosa, quando viaggio è comunque una discreta sicurezza, non lo vedo come il diavolo. Ma che un ministro che fa parte di una forza politica che ha fatto dell’appartenenza e dei valori legati al territorio praticamente la spina dorsale della propria ideologia politica, fino a volte a diventare vera xenofobia, gioisca e presenti come un successo una cosa del genere suona abbastanza ridicolo. In altri paesi come la Francia, dove l’appartenenza al territorio è molto sentita ed il prodotto locale è un culto, i movimenti regionalisti hanno fatto ben altre campagne. Ma sulla coerenza della Lega sappiamo bene molte cose, anche Fabio recentemente ha scritto parecchio.
    Tornando al discorso iniziale, se cultura aziendale e cultura popolare sono così strettamente unite, l’abitudine italica di mettersi al servizio del forte non può quindi non essere ben radicata anche in campo imprenditoriale. L’orgoglio nazionale o padano sono fuffa per comizi folcloristici. Se poi ci mettiamo anche l’altro vizio italico, quello del fregare il prossimo, fossi nei dirigenti MacDonald starei molto attento a quello che gli rifilano come dop o doc o made in italy http://www.ilmattino.it/articolo.php?id=88150&sez=CAMPANIA. Sempre che gliene freghi qualcosa, il che ne dubito. Dove conta il profitto, oramai il brand vale più del contenuto.

    Michele Gardini

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