La fine della politica giunge insieme alla fine del racconto della politica. La progettualità svanisce, i media annotano e provano a dare senso a un flusso continuo di contraddizioni in cui il lettore si smarrisce. E anzi, finisce a sua volta: vinto dal cinismo, sopraffatto dal senso profondo di inutilità dello sforzo di seguirne lo sviluppo, abbandona.
Il dubbio è che abbia ragione. Che sia giusto arrendersi, lasciare classe dirigente e quarto potere a parlarsi addosso. Abbracciare una più o meno sofferta indifferenza oppure i proclami radicalmente rivoluzionari di chi vuole una «nuova politica», che la «vecchia» chiama antipolitica.
È una sensazione che causa disagio (dopotutto, ignorare significa dare carta bianca), rende palpabile l’abisso che si è spalancato tra le preoccupazioni quotidiane della politica, la sua narrazione e l’interesse dei cittadini per le une e l’altra. Ed è una sensazione che conosciamo bene: l’abbiamo vissuta non più tardi del 2 ottobre, nell’esperienza di una crisi di governo fatta rientrare, dopo mille giravolte, da chi l’aveva causata.
Cercando di capire come un cronista possa essere utile in un frangente tanto caotico e intriso di rassegnazione, mi ero chiesto – su Valigia Blu – come fare informazione in uno scenario in cui la contraddizione è, di fatto, indistinguibile dalla coerenza. Problema, concludevo, a cui non ho risposta.
Poi un amico mi ha consigliato di recuperare ‘Forza, Simba’, il reportage per Rolling Stone in cui David Foster Wallace racconta la sua esperienza al cuore della campagna per la candidatura alle presidenziali di John McCain del 2000 (in ‘Considera l’aragosta‘, Einaudi, pp. 169-262). E ci ho trovato una strana, inquietante consonanza. Pagine che aiutano ad andare più a fondo nella questione, ampliarne il raggio, contestualizzarla. Fin dalla premessa. Se oggi come allora,
«Non ci limitiamo più a non credere alla fuffa: ormai nemmeno la sentiamo. La releghiamo allo stesso livello intrinseco, sotto la soglia dell’attenzione, in cui isoliamo i cartelloni pubblicitari e le musichette di sottofondo».
e se il racconto quotidiano della politica si occupa, appunto, della «fuffa», cosa accade al lettore e all’elettore? Foster Wallace se lo chiede subito, mentre stabilisce la regola aurea del suo reportage. Al contempo di metodo (giornalistico) e di merito (civile), perché si propone
«di capire se al giorno d’oggi una qualunque persona che si candidi a una qualunque carica possa essere ‘reale’, e se ciò che noi davvero vogliamo sia qualcosa di reale, oppure qualcos’altro».
Insomma, e se volessimo invece la finzione, il prodotto, lo slogan confezionato dagli strateghi della comunicazione? Del resto, siamo in
«Un’era in cui le affermazioni di principio o di visione dei politici vengono recepite come slogan pubblicitari interessati, e giudicati non in base alla loro autenticità o capacità di ispirare, ma alla scaltrezza, alla commerciabilità».
Non è tanto questione di vero e falso, scrive Foster Wallace. È che vogliamo credere in qualcuno, oltre che a qualcuno. E se non riusciamo a credere in nessuno, non resta che affidarsi a chi si unisce al coro dei delusi, e si propone di farsene interprete.
Per questo colpisce, fa notizia e ottiene consenso l’anticandidato. McCain, nel racconto dello scrittore. Ma anche qualunque leader politico si definisca come il fustigatore dello status quo, colui il quale rigetta interamente il vecchio modo di fare politica e vi sostituisce la sua genuinità e, naturalmente, il popolo a cui ridona infine il potere.
L’Italia che ha visto il movimento di Beppe Grillo ottenere il 25,5% ne costituisce un perfetto esempio. Pur non essendo egli stesso un candidato, tra le pagine di Foster Wallace a tratti sembra aleggiarne lo spirito: «A volte dice cose che sono anche palesemente vere, ma che nessun altro grande candidato dice mai», scrive Foster Wallace di McCain, ed è altrettanto vero per Grillo. Anche in Grillo poi c’è un vissuto, una percepibile motivazione umana che pone perfino gli scettici di fronte alla «sorta di dissidio interiore» di cui si legge tra abbandonare il disfattismo e affidarsi all’anticandidato e «la convinzione profonda che il bisogno di credere sia una stronzata, che in giro non sia rimasto altro che vendite e piazzisti».
Dalle macerie di una politica che non fa politica e di un giornalismo che non fa giornalismo, sorge così un fenomeno che porta con sé le domande che da sempre si associano all’ascesa dei cosiddetti populismi, ma che si legano in maniera specifica ai mezzi e alle dinamiche di comunicazione che ne trasmettono il credo ai fedeli. Foster Wallace è quasi profetico quando ragiona sulla prima vittima di un’epoca in cui
«è pressocché impossibile parlare delle questioni politiche davvero importanti senza fare ricorso a termini divenuti ormai luoghi comuni talmente orribili che provocano un istantaneo sguardo vitreo e sono difficili persino da percepire».
e scrive che quella vittima è la nostra comprensione del leader, la desiderabilità stessa della nozione (e di quale nozione) di leadership:
«Ormai è difficile provare a riflettere su quale sia il vero significato di ‘leader’ e chiedersi se veramente quello che i giovani elettori di oggi vogliono sia un leader».
Oggi sappiamo della retorica della non-leadership, del «potere orizzontale», delle organizzazioni «a rete» costruite sul modello della «Rete». Ma la spinta, il motore è lo stesso: non il nuovo strumento (per esempio, Internet), ma il disgusto nei confronti della politica tradizionale, tale che fare l’anticandidato «diventa una qualità straordinariamente attraente e smerciabile ed eleggibile».
Cercando di abbandonare i paradossi della vecchia politica, ecco che ne troviamo di nuovi. Cercando di abbandonare gli slogan, reperiamo un nuovo vecchio modo di sottomettersi al marketing politico: trasformare il rifiuto in contenuto, la protesta in alternativa. Annota Foster Wallace:
«[È] un momento in cui un anticandidato può trasformarsi in un candidato vero. Però, certo, se si trasforma in un candidato vero poi continua a essere un anticandidato? È possibile vendere il rifiuto di mettersi in vendita?»
Anche qui, nessuna risposta. Tanto che il resoconto si chiude con i dubbi dello scrittore su McCain: quanto sta vendendo il rifiuto di mettersi in vendita e quanto, invece, è più semplicemente se stesso? Non ci interessa qui risolvere il dilemma: e del resto, sarebbe una folle immodestia. Interessa invece sottolineare che la strada del rifiuto, nella politica come nel racconto della politica, non è meno impervia di quella dell’accettazione. Entrambe le vie partono da paradossi e conducono a paradossi. Forse, sembra suggerire Foster Wallace con la sua testimonianza, l’unica possibilità è metterli a nudo man mano che si presentano.
Questo potrebbero significare le ultime righe, la contraddizione centrale nel personaggio McCain:
«Piazzista o leader o tutte e due le cose o nessuna che sia, il paradosso finale […] è che il fatto che lui sia davvero ‘reale’ dipende meno da ciò che c’è nel suo cuore che da ciò che c’è nel vostro. Cercate di rimanere svegli».
(Grazie a G. Tomai per lo spunto)
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