In un pezzo sul Guardian, Evgeny Morozov pone una questione importante: come dovrà cambiare Wikileaks per sopravvivere? Non tanto agli attacchi informatici e alle pressioni dei governi. Perché a quello, nonostante i rischi e le fatiche, è sopravvissuta. Ma a se stessa.
Perché ormai, scrive Morozov, i leaks ci saranno anche senza Wikileaks. Lo testimonia l’uscita dei Palestine papers su Al Jazeera. Così come il moltiplicarsi di siti e iniziative, più o meno locali (mi vengono in mente Openleaks e Ruleaks, recentemente alle cronache – ma Morozov non le cita).
Dunque in un certo senso Wikileaks ha già vinto: questa missione è compiuta (nemmeno questo è scritto da Morozov, tuttavia). Ma in un altro rischia di perdere. Di sparire. Perché è sempre più dipendente da media partner che, tra l’altro, gli hanno voltato le spalle (basti pensare a come il direttore del New York Times tratti Assange nella sua prefazione a Open Secrets). Ha sempre più bisogno delle loro analisi e della loro professionalità, perché i leak possono anche giungere a migliaia, ma poi non si traducono in notizie, fino a che non sono oggetto di un lavoro editoriale. E ha sempre più bisogno della loro visibilità per poter contare su un appoggio tale che consenta all’organizzazione di resistere alle enormi pressioni internazionali.
Il tutto mentre, nota perfidamente Morozov, i media partner non hanno così tanto bisogno di Wikileaks. Un punto del tutto speculativo, tuttavia, come dimostrato dal fatto che Morozov è costretto a ipotizzare un mondo in cui i principali media partner di Wikileaks si siano dotati tutti individualmente della propria «transparency unit». Accadrà? Può darsi, ma al momento né io né Morozov abbiamo la sfera di cristallo. Anche e soprattutto per vedere il contenuto pubblicato da tali futuribili squadre di whistleblower.
Ma a prescindere dalle asperità della par destruens, è la pars construens a essere intelligente. Morozov si chiede: che futuro avrà Wikileaks? Potrebbe diventare, scrive, una ngo, cercare di reggersi sulle proprie gambe, mettersi in competizione con Guardian e Nyt. Ma non avrebbe la stessa influenza e, dunque, la stessa protezione. Allo stesso modo, qualunque suo clone locale, meno visibile, rischierebbe di soccombere alla pressioni di individui e organizzazioni colpite dalle proprie pubblicazioni. Per non parlare degli attacchi informatici, che hanno messo in ginocchio, seppure per poco, perfino Wikileaks.
Che fare? Morozov ha un’idea: Assange potrebbe mettersi a capo di un movimento per la difesa della libertà della rete (reinterpreto con le mie parole il pensiero di Morozov, lui non usa questi termini) che raccogliesse i migliori contributi dei coder che hanno permesso a Wikileaks di rimanere online nell’occhio del ciclone. Così da trovare un modo per rendere le piccole voci locali altrettanto, se non più, impermeabili alla censura.
Questo dovrebbe essere «il suo obiettivo primario», scrive Morozov. Un compito particolarmente importante, ricorda, soprattutto dopo la settimana di blackout della rete in Egitto. E che assolverebbe davvero al compito di condurre una crociata per la trasparenza globale.
L’idea è potente, soprattutto perché esula dall’efficacia dell’analisi sulla sopravvivenza di Wikileaks. Assange potrebbe infatti trovare un modo per rimanere in posizione contrattuale privilegiata coi media partner (dopotutto, content is king – e non è affatto detto che una qualunque “transparency unit” improvvisata da un quotidiano disponga degli scoop di cui dispone Assange) o dotarsi di una ancora migliore protezione dagli attacchi informatici. Senza cambiare di una virgola i tratti che ora riconosciamo nell’organizzazione.
Dunque Wikileaks potrebbe sopravvivere e contemporaneamente dare il la a quel movimento per la difesa della libertà di espressione in rete che, attraverso il catalizzatore della popolarità e soprattutto dell’ideologia di Assange, finirebbe per tutelare la voce di chi ora non è sicuro di poter parlare. Se a Wikileaks riuscisse di portare a termine entrambe le rivoluzioni, perfino Morozov sarebbe costretto a ricredersi. E chiedere scusa a quell’uomo in salute che ha scambiato per un malato terminale.