L’Onu: «Manning trattato in modo crudele, inumano e degradante»

Ed Pilkington sul Guardian riporta i risultati di un’inchiesta dello special rapporteur dell’Onu per le torture, Juan Mendez, sul trattamento subito in carcere dalla presunta fonte di WikiLeaks, Bradley Manning. Questa la conclusione sulla situazione patita dall’ex analista dell’intelligence, affidata al quotidiano londinese:

«Concludo che 11 mesi in condizione di isolamento (nonostante il nome dato al suo regime di carcerazione dalle autorità) costituiscono come minimo un trattamento crudele, inumano e degradante in violazione dell’articolo 16 della convenzione contro la tortura. Se gli effetti in termini di dolore e sofferenze inflitte a Manning fossero più gravi, potrebbero costituire tortura»

Nell’addendum Mendez scrive di aver più volte chiesto di poter intrattenere una conversazione privata con Manning (come nelle sue facoltà), ma che il governo degli Stati Uniti si è ripetutamente opposto, dicendosi disponibile solamente a colloqui che potesse «monitorare».

Secondo Mendez, inoltre, le autorità statunitensi avrebbero giustificato il ricorso all’isolamento per quasi un anno chiamando il suo regime carcerario non «solitary confinement» ma «prevention of harm watch». Tuttavia, prosegue, «non hanno offerto dettagli quali danni si stavano cercando di prevenire».

Invece di dire frettolosamente che Manning «ha violato la legge» e condurre una guerra senza precedenti ai whistleblower, Obama avrebbe più di qualcosa da spiegare.

Facebook distruggerà il cervello dei vostri bambini.

Il titolo è la traduzione letterale di uno splendido pezzo apparso sul Guardian a firma Martin Robbins. Che ha compreso esattamente come trattare l’ennesima presunta scoperta sugli effetti deleteri del social networking sull’architettura cerebrale.

Anche in questo blog si è più volte sottolineato lo scarso valore scientifico degli studi sulle conseguenze nefaste di Facebook che periodicamente appaiono sui giornali e che questi ultimi, maldestramente, senza alcuna verifica, rilanciano per le consuete ragioni (si vedano su tutti ‘Facebook ti fa venire l’asma’ e ‘Sifilide 2.0’).

Ma il modo in cui Robbins trasforma il solito pezzo che mette sullo stesso piano scandalismo e pseudo-scienza (intitolato ‘Facebook e Twitter stanno creando una generazione inutile di persone auto-ossessionate con un bisogno infantile di feedback, dice una scienziata di punta’) in una farsa è geniale. Anche e soprattutto perché non ricorre alla derisione, ma è lucido e implacabile dal punto di vista argomentativo come il più serio dei pezzi di analisi.

Alcuni passaggi:

«Con una mossa controversa, la famosa rivista scientifica The Daily Mail ha pubblicato i risultati della scienziata prima che li avesse ottenuti».

«La scienziata di alto profilo, che usa frequentemente i media per avvalorare le sue teorie agli occhi del pubblico […]».

«La scienziata, che a dire il vero non usa Twitter […]».

Gli spunti esilaranti sono diversi, e il pezzo va letto per intero.

Per la cronaca, la scienzata di ‘alto profilo’ in questione è la stessa Susan Greenfield che ebbe a dichiarare, nell’ottobre del 2010, che «il computer divora il cervello dei bambini». Non c’è nemmeno la notizia, dunque. Eppure il Corriere della Sera, semplicemente quello che dovrebbe essere il più autorevole quotidiano italiano, le ha dedicato un editoriale non più tardi del 31 luglio. Titolo? «Quando Facebook ci rende bambini». Al suo interno, questa riflessione di Silvia Vegetti Finzi:

Poiché l’Io si riconosce soltanto nella esposizione all’altro e si conferma nell’approvazione altrui, il bisogno di una piazza telematica dove si ritrovino gli spaesati componenti della ‘società degli individui’ è diventato mondiale. A questa esigenza rispondono i network sociali, quali Facebook e Twitter […].

Vorrei tanto avere l’ironia di Robbins per trovare un commento adatto.

Chi radicalizza lo scontro online.

Consiglio vivamente la lettura di questa riflessione di Loz Kaye sul Guardian. La sua ipotesi è che i tentativi di repressione della libertà di espressione online condotti di recente in tutto il mondo abbiano radicalizzato l’attivismo digitale e l’hacktivism in quanto parte di un più ampio contesto che chiede una reazione.

Insomma, i cinquanta giorni terribili di LulzSec non sono stati un caso isolato, ma parte di un fenomeno più generale e vasto. Non «le ossessioni personali di un pugno di nerd», ma l’ultimo di una lunga catena di segnali (WikiLeaks, Anonymous ma anche il felice connubio tra tecnologia e rivoluzioni) che rivelano l’utilizzo di nuovi strumenti di partecipazione e controllo del potere da parte di un numero crescente e sempre più movitato (consapevole?) di individui che fino a ieri si sentiva impotente.

Ora quegli individui sono arrabbiati, perché i governi e le corporazioni, resisi conto delle capacità di quei mezzi, li vogliono addomesticare. Succede anche nelle democrazie avanzate: in Gran Bretagna (Digital Economy Act), Francia (Hadopi) ma anche Australia e, naturalmente, Italia. Da qui la radicalizzazione dello scontro tra le due fazioni. La guerriglia informatica scatenatasi oggi stesso attorno alla protesta contro la delibera 668/2010 dell’Agcom sembra fornirne una chiara dimostrazione.

Che fare? Questa l’analisi di Kaye:

«Abbiamo raggiunto una giuntura critica: o spieghiamo le vele verso l’escalation del confronto, o viriamo per ridurre la tensione cercando una via d’uscita democratica, una che preservi il diritto di libera associazione.»

[…]

«ma ci vorrà più che ottenere che qualche Ngo sieda attorno a un tavolo per attenuare il vero e proprio senso di rabbia che avvelena la comunità online».

[…]

«Fin quando sembrerà che l’azione diretta sia più efficace dell’impegno democratico, è chiaro che la prima sembrerà un’opzione più attraente per molti. La linea ufficiale che internet sia un territorio pericoloso da sottomettere è responsabile di un’allarmante radicalizzazione. Questo non è soltanto un problema per le stravaganze dei tabloid e i nerd, ma per chiunque creda nella fondamentale importanza della libertà.

È  tempo che i governi invertano la rotta delle imbarcazioni e traccino una nuovo percorso.

In altre parole: per ritornare sulla strada del confronto democratico, le istituzioni devono smetterla con la censura. Perché quella davvero «danneggia tutti». Capito, Agcom?

Guantanamo files: la “guerra” dei media fa bene ai lettori.

WikiLeaks non ha condiviso i Guantanamo files con i suoi media partner della prima ora, il New York Times e il Guardian. Eppure entrambi i quotidiani sono usciti con una copertura eccellente del contenuto del materiale, con tanto di mappe interattive dei detenuti per meglio organizzare la lettura dell’intero set dei documenti, analisi, commenti. Tutto ciò è stato reso possibile da «un’altra fonte», scrive il Nyt, che avrebbe dato i file al quotidiano newyorkese al posto di WikiLeaks. Lo stesso Nyt li avrebbe poi dati al Guardian e a NPR.

Il gesto ha un significato piuttosto chiaro: dopo le lunghe polemiche, il Nyt vuole dimostrare di essere in grado di uscire tempestivamente con gli scoop di WikiLeaks indipendentemente dal fatto che l’organizzazione lo annoveri tra le fonti meritevoli di pubblicarli in anteprima. Non a caso, poi, il Nyt ha condiviso il tutto con il Guardian, con cui Assange è in rotta al punto di minacciare querele per quanto scritto da David Leigh e Luke Harding nel loro volume Inside Julian Assange’s War on Secrecy. Entrambe le testate non figurano nella lista dei media partner sulla sezione di WikiLeaks dedicata ai Guantanamo files.

Che ci sia una “guerra” tra media organization e WikiLeaks per pubblicarne le rivelazioni è chiaro anche da questo tweet:

Nel gruppo dei “cattivi” c’è anche Daniel Domscheit-Berg, ex portavoce di WikiLeaks e oggi su posizioni molto critiche con Assange.

Insomma, i media tradizionali sedotti e abbandonati da WikiLeaks rivogliono avere il coltello dalla parte del manico. Comprensibile, e probabilmente foriero di ulteriori e imprevedibili sviluppi nell’ecosistema dell’informazione. Tuttavia ciò che interessa a noi lettori è il risultato: più articoli, più analisi, più commenti, più data journalism, maggiore copertura, ulteriori collaborazioni inedite tra testate.

Per questo WikiLeaks, che sia a sua volta vittima di fughe di notizie o meno e a prescindere da dissapori personali, ha vinto di nuovo: innescando una gara al rialzo, una sana competizione tra i media, ha fatto vincere i lettori.

Update: Michael Calderone su Huffington Post spiega tutti i dettagli della “guerra”.

Guantanamo Files resources:

Sul Washington Post
Sul New York Times
Sul Guardian
Su Le Monde
Su WikiLeaks

WikiLeaks resources:

Must read articles on WikiLeaks
Il mio libro su WikiLeaks 

Morozov e la morte di Wikileaks: un errore e un’idea.

In un pezzo sul Guardian, Evgeny Morozov pone una questione importante: come dovrà cambiare Wikileaks per sopravvivere? Non tanto agli attacchi informatici e alle pressioni dei governi. Perché a quello, nonostante i rischi e le fatiche, è sopravvissuta. Ma a se stessa.

Perché ormai, scrive Morozov, i leaks ci saranno anche senza Wikileaks. Lo testimonia l’uscita dei Palestine papers su Al Jazeera. Così come il moltiplicarsi di siti e iniziative, più o meno locali (mi vengono in mente Openleaks e Ruleaks, recentemente alle cronache – ma Morozov non le cita).

Dunque in un certo senso Wikileaks ha già vinto: questa missione è compiuta (nemmeno questo è scritto da Morozov, tuttavia). Ma in un altro rischia di perdere. Di sparire. Perché è sempre più dipendente da media partner che, tra l’altro, gli hanno voltato le spalle (basti pensare a come il direttore del New York Times tratti Assange nella sua prefazione a Open Secrets). Ha sempre più bisogno delle loro analisi e della loro professionalità, perché i leak possono anche giungere a migliaia, ma poi non si traducono in notizie, fino a che non sono oggetto di un lavoro editoriale. E ha sempre più bisogno della loro visibilità per poter contare su un appoggio tale che consenta all’organizzazione di resistere alle enormi pressioni internazionali.

Il tutto mentre, nota perfidamente Morozov, i media partner non hanno così tanto bisogno di Wikileaks. Un punto del tutto speculativo, tuttavia, come dimostrato dal fatto che Morozov è costretto a ipotizzare un mondo in cui i principali media partner di Wikileaks si siano dotati tutti individualmente della propria «transparency unit». Accadrà? Può darsi, ma al momento né io né Morozov abbiamo la sfera di cristallo. Anche e soprattutto per vedere il contenuto pubblicato da tali futuribili squadre di whistleblower.

Ma a prescindere dalle asperità della par destruens, è la pars construens a essere intelligente. Morozov si chiede: che futuro avrà Wikileaks? Potrebbe diventare, scrive, una ngo, cercare di reggersi sulle proprie gambe, mettersi in competizione con Guardian e Nyt. Ma non avrebbe la stessa influenza e, dunque, la stessa protezione. Allo stesso modo, qualunque suo clone locale, meno visibile, rischierebbe di soccombere alla pressioni di individui e organizzazioni colpite dalle proprie pubblicazioni. Per non parlare degli attacchi informatici, che hanno messo in ginocchio, seppure per poco, perfino Wikileaks.

Che fare? Morozov ha un’idea: Assange potrebbe mettersi a capo di un movimento per la difesa della libertà della rete (reinterpreto con le mie parole il pensiero di Morozov, lui non usa questi termini) che raccogliesse i migliori contributi dei coder che hanno permesso a Wikileaks di rimanere online nell’occhio del ciclone. Così da trovare un modo per rendere le piccole voci locali altrettanto, se non più, impermeabili alla censura.

Questo dovrebbe essere «il suo obiettivo primario», scrive Morozov. Un compito particolarmente importante, ricorda, soprattutto dopo la settimana di blackout della rete in Egitto. E che assolverebbe davvero al compito di condurre una crociata per la trasparenza globale.

L’idea è potente, soprattutto perché esula dall’efficacia dell’analisi sulla sopravvivenza di Wikileaks. Assange potrebbe infatti trovare un modo per rimanere in posizione contrattuale privilegiata coi media partner (dopotutto, content is king – e non è affatto detto che una qualunque “transparency unit” improvvisata da un quotidiano disponga degli scoop di cui dispone Assange) o dotarsi di una ancora migliore protezione dagli attacchi informatici. Senza cambiare di una virgola i tratti che ora riconosciamo nell’organizzazione.

Dunque Wikileaks potrebbe sopravvivere e contemporaneamente dare il la a quel movimento per la difesa della libertà di espressione in rete che, attraverso il catalizzatore della popolarità e soprattutto dell’ideologia di Assange, finirebbe per tutelare la voce di chi ora non è sicuro di poter parlare. Se a Wikileaks riuscisse di portare a termine entrambe le rivoluzioni, perfino Morozov sarebbe costretto a ricredersi. E chiedere scusa a quell’uomo in salute che ha scambiato per un malato terminale.