Tra speranza e distopia.

Pubblico il testo della lezione che terrò mercoledì all’Istituto Carlo Tenca di Milano. Penso che, di questi tempi, potrebbe fornire interessanti spunti di riflessione circa la natura del dibattito politico in corso.

Tra speranza e distopia: il “Grande Inquisitore” e il “Mondo Nuovo” di Huxley.

La lettura di Berdjaev del “Grande Inquisitore”

In un meraviglioso testo sulle implicazioni filosofiche del pensiero di Dostoevskij, Nikolaj Berdjaev – un grande, seppur dimenticato, della filosofia russa contemporanea – affronta il dilemma fondamentale avanzato nel “Grande Inquisitore”: e cioè se sia ancora possibile per l’uomo sperare di conciliare la propria intima natura con la felicità, o se debba arrendersi all’apocalisse che la storia costantemente pone di fronte al suo cammino, e desiderare di perdere se stesso nella schiavitù e nell’obbedienza – pur di sopravvivere.

Il rapporto in gioco è quello primario, essenziale tra libertà (l’essenza dell’uomo, che consiste cioè nella capacità di decidere individualmente del senso della propria esistenza, e di adoperare la propria più intima individualità per rispondere a questa domanda – il che si traduce in n piani di vita differenti) e angoscia (quella che ogni uomo nel corso della propria vita sperimenta almeno una volta: la percezione del mistero circa il senso e la destinazione della propria esistenza). È la battaglia per il senso dell’esistenza, dice Dostoevskij, a definire l’umano.

Il distopico (l’anti-utopico, il massimamente indesiderabile) ipotizza che l’uomo, pur di non percepire l’angoscia, sia disposto ad abbandonare la sua libertà. E abbracci volontariamente la schiavitù (e cioè quella di lasciare allo Stato, al Partito o al “Grande Fratello” di turno la decisione circa quale sia il piano di vita da condurre, quale la personalità da sviluppare, quale il modo di affrontare la domanda di senso). Nel “Grande Inquisitore” – di cui ora diremo – c’è questo modernissimo concetto, che anticipa le analisi contemporanee, espresso in tutta la sua radicalità e potenza.

La domanda dunque è: siamo giunti a un momento della storia in cui si sta cercando di fondare l’ordine sociale non sulla libertà ma sulla schiavitù? A cui fa immediato seguito: perché l’uomo dovrebbe abbandonarsi alla schiavitù? Il pensiero distopico, di cui la narrazione di Dostoevskij costituisce il nucleo, la summa e la smentita (come vedremo, l’approdo di Dostoevskij è la speranza) ha una risposta: in cambio di una promessa di felicità materiale – qui e ora. Che la libertà non può garantire. In sostanza, la dicotomia è tra libertà e felicità: cosa è più importante? Nella soluzione di questo dilemma riposa il destino spirituale e politico dell’umano.

In Dostoevskij queste domande vengono rappresentate tramite la leggenda del “Grande Inquisitore”, contenuta come “narrazione nella narrazione” all’interno de “I fratelli Karamazov”. Brevemente, la leggenda ipotizza una seconda venuta di Cristo, questa volta al tempo dell’Inquisizione. Il Messia incontra il “Grande Inquisitore”, il più spietato tra i rappresentanti di quello che, per caratteristiche e intenti, si configura come un vero e proprio regime distopico ante litteram. Questi lo mette sotto processo e lo condanna come “il peggiore degli eretici”; non, come al tempo della “prima venuta”, ritenendolo un impostore, ma proprio perché lo riconosce. Qual è il capo di imputazione, questa volta? Aver creduto che ogni uomo fosse in grado di sostenere il peso della libertà fondamentale, e cioè di poter vivere felicemente nonostante il peso – gravoso – della domanda di senso irrisolta che ne sta strutturalmente alla base. Solo un Dio, dice l’Inquisitore, è in grado di reggere questo peso. E tu, Cristo, avresti dovuto cedere alle tentazioni di Satana nel deserto (riassumibili nel trinomio “mostra la tua autorità”, “dà loro il pane”, “rendili schiavi dei tuoi miracoli”); avresti dovuto barattare la libertà con la felicità (l’assunto, come detto, è che non si possano ottenere insieme), se avessi davvero avuto a cuore l’uomo.

L’idea, dunque, è che l’uomo non abbia più bisogno di Cristo, del Dio fattosi uomo, ma dell’Anticristo: dell’uomo che si fa Dio, dell’uomo che risolve da sé – tramite l’affidamento totale, la schiavitù al nuovo ordine (distopico) – la domanda di senso. E ottiene così finalmente una garanzia di felicità materiale che include anche la promessa, tipica degli ordinamenti “utopici” – o “distopici”, a seconda degli esiti -, di risolvere ogni problema di natura economica e dunque garantire il “pane”, il sostentamento vitale a ciascuno “in parti uguali e senza alcun miracolo”, tramite l’esercizio di una indiscussa autorità.

Dostoevskij tuttavia replica che è proprio la libertà a fare l’uomo. Una libertà che è di per sé irrazionale, inafferrabile. E per questo, fonte costante di creatività, di stupore – e dunque incontrollabile. L’uomo per essere tale deve poter desiderare anche l’infelicità, desiderare anche il suo stesso male. La libertà porta con sé la ribellione a ogni ordine costituito che cerchi di sostituire una risposta al mistero sulla domanda di senso. La libertà è rivoluzionaria. Ecco da dove proviene l’odio di Dostoevskij per le “utopie” (siano esse religiose o laiche): tutte, senza distinzione, sacrificano la libertà e, con essa, l’umanità dell’umano.

La libertà dunque pone l’uomo di fronte a due scelte nel “Grande Inquisitore”: credere nel Dio-Uomo, o diventare l’Uomo-Dio. La prima scelta impone di accettare l’irrazionalità dell’esistenza, che verrà redenta dopo la morte dalla “rivelazione”; la seconda invece impone un ordine razionale all’esistente che però diventa reale solamente a scapito della propria libertà e, dunque, della propria individualità. Questo, secondo Dostoevskij, conduce necessariamente al distopico, in quanto trasforma l’uomo in uomo-massa, perfettamente identico a ogni altro uomo-massa e, per questo, sacrificabile al fine di mantenere l’ordine costituito, investito in tali circostanza addirittura di un potere salvifico. A questo modo la promessa di felicità, sostiene Dostoevskij, si trasforma in una certezza di schiavitù. L’ordine, per sradicare la libertà, deve infatti legiferare su e disporre di ogni singolo aspetto degli individui, compresa la vita sessuale, i legami familiari e sociali; l’economia deve essere rigidamente pianificata e insieme a essa il lavoro così come l’ozio e la creatività. E questo si può ottenere soltanto – conclude Dostoevskij – al prezzo della perdita dell’umanità del singolo. La fede nel Dio-Uomo è l’unico modo di sciogliere il binomio libertà-felicità nella speranza. Solo grazie a Cristo tale esito è ancora realizzabile.

L’obiezione di Huxley 

L’obiezione a questo ragionamento, l’unica a mio modo di vedere mai posta nella storia del pensiero distopico contemporaneo, viene da Huxley, che nel suo romanzo “Il Mondo Nuovo” immagina una società perfettamente schiava dell’ordine costituito eppure allo stesso tempo perfettamente felice. Come è possibile?

Essenzialmente tramite una modifica della nozione di “umanità” e a un rigido programma di manipolazione della volontà individuale. In sostanza, nel “Mondo Nuovo” (che è, va ricordato, del 1932), gli individui vengono programmati fin dalla nascita (e quindi geneticamente – un progetto chiamato “eugenetica” e realmente perseguito in passato, ad esempio dal Nazismo) e conseguentemente educati per desiderare ciò che viene loro insegnato a desiderare. Gli individui di “individuale” non hanno più nulla: appartengono a poche classi (o meglio, “caste”) rigidamente separate e geneticamente differenti. A ogni classe (Alpha, Beta etc. fino a Epsilon) corrisponde un particolare livello di “intelligenza” (o meglio, di abilità concettuali) e competenze pratiche, oltre a un insieme specifico di dinamiche sociali. I figli vengono generati rigorosamente in provetta (il concetto di “viviparo” diviene uno stigma sociale, un tratto caratteristico della “barbarie”) e educati dal “Partito Unico”. Il tutto mira a eliminare proprio quell’elemento rivoluzionario, ribelle, intrinseco alla libertà degli individui. E ottenere, a questo modo, la stabilità sociale – in altre parole, un dominio eterno e immutabile sull’umanità stessa.

Questo sistema diabolico (tipico dell’Anticristo, dell’Uomo-Dio – in quanto rinuncia alla libertà individuale in nome della felicità terrena – e cioè in nome dell’accettazione delle tentazioni di Satana nel deserto) funziona, nella finzione di Huxley, nella maggior parte dei casi e per gran parte della giornata dell’abitante medio del “mondo nuovo”. E quando non dovesse funzionare? Quando dovesse riemergere qualche frammento di libertà, qualche punta di angoscia esistenziale? L’ordine “nuovo” ha due risposte: il soma e il sesso. Il soma è una vera e propria droga-panacea, una pastiglia da ingerire – in diverse dosi a seconda della gravità del “disturbo” – ogniqualvolta un soffio di umanità torni a instillare il dubbio nei membri del “corpo sociale”. Nella società contemporanea, un parallelo potrebbe essere tracciato con la diffusione – sempre più pervasiva – degli psicofarmaci. E poi c’è la sessualità libera, che serve da un lato per addomesticare pulsioni istintuali che potrebbero altrimenti diventare pericolosi focolai di ribellione, e dall’altro a mutare l’atto che rappresenta l’espressione più naturale di un legame intimo tra esseri umani (quello sessuale, appunto) in una mera questione erotica, di soddisfacimento e piacere personale. A questo modo l’isolamento, l’alienazione dell’individuo da se stesso è completa. La sua sostituibilità, la sua fungibilità all’interno della massa – ai fini del mantenimento dell’ordine – garantita.

Un ultimo aspetto degno di nota è il rapporto tra questa visione del distopico e quella avanzata da George Orwell nel celebre 1984. Come si realizza il progetto del “Grande Inquisitore” di sostituire al desiderio di libertà quello di schiavitù? Orwell e Huxley danno due risposte diametralmente opposte. Mentre per il primo servono la violenza e la repressione esercitate quotidianamente (attraverso i “due minuti d’odio”, il sospetto e la denuncia reciproca, la sorveglianza costante dell’occhio del “Grande Fratello”), Huxley avanza un’ipotesi ben più terribile e pericolosa: e cioè che nulla di tutto questo serva. La tecnica, e in particolare l’ingegneria sociale realizzata tramite un misto di eugenetica e “condizionamento pavloviano” (l’educazione ad associare a sensazioni positive gli stimoli ritenuti “adatti” da chi li fornisce), è in grado di modificare la stessa struttura della volontà di ogni individuo. E rendere dunque desiderabile la sottomissione a quell’ordine che incarna la promessa di stabilità, sazietà e piacere – anche se questo significa rinunciare alla propria umanità.

Il dibattito è, in altri termini, tra chi pensa che il controllo del desiderio si eserciti rinnovandone lo stimolo e l’insoddisfazione giorno dopo giorno, e chi invece ritiene che ciò possa avvenire solamente soddisfacendo un desiderio già alla radice conforme alla volontà dell’ordine costituito. Un tema di primaria importanza in una società come la nostra, che sui desideri fonda la sua stessa sopravvivenza economica e sociale.

Il “Grande Inquisitore” tra speranza e distopia

In conclusione, possiamo dire che il “Grande Inquisitore”, portando alle estreme conseguenze il problema del rapporto tra libertà e felicità intese nella loro accezione fondamentale (e cioè legata alla domanda di senso), si configura come una vera e propria chiave interpretativa essenziale alla comprensione del cammino del pensiero utopico (e distopico) contemporaneo e, in particolare, delle tremende conseguenze politiche e sociologiche che tale riflessione ipotizza. Huxley è forse l’unico autore a contraddire l’esito di speranza della riflessione di Dostoevskij, e a rinvenire in una accezione perversa del progresso tecnologico il rischio, e allo stesso tempo la paradossale opportunità, che la tecnica realizzi non, come vorrebbe l’utopismo, libertà e felicità umane insieme, ma al contrario dia luogo a un ordine sociale stabile di schiavi felici. A meno che questo non significhi solamente una diversa, inedita accezione del termine “speranza”.

Su questo vi invito a riflettere e porre delle domande.

(Per Farefuturo Web Magazine)

4 pensieri su “Tra speranza e distopia.

  1. Sinceramente non mi viene in mente nessuna domanda, forse perchè hai semplicemente messo per iscritto con parole perfette qualcosa che mi frulla in testa ormai da anni ma che non mai stato capace di stendere per iscritto e chiarire come hai fatto tu. Mi piace molto poi l’ultima domanda, molto intelligente e piena di spunti di riflessione. Ti porgo solo una domanda, che in realtà è una richiesta, vorrei il tuo permesso per diffondere questo tuo scritto in giro sul web in direzione di amici e conoscenti. Sinceramente dubito che qualcuno possa anche solo leggerla tutta, figuriamoci capirla, però non smetto mai di “sperare”.

  2. Articolo interessantissimo, una goduria da leggere.
    Io credo che felicità e libertà possano e debbano essere conciliate. Credo che la felicità non solo sia un diritto da perseguire con testardaggine, ma non vedo altro scopo, nella vita di ogniuno, se non quello di essere felice, e di migliorare se stesso, e l’ ambiente che lo circonda, per avvicinarsi il più possibile a questo obiettivo.
    Credo che la distribuzione equa delle risorse (quantomeno di quelle primarie) del pianeta fra gli individui che lo popolano, sia un buon punto di partenza per garantire da una parte una vita al riparo dalle angosce della sopravvivenza, e dall’ altra un ambiente più armonioso e sicuro dove ogni essere umano abbia la possibilità di esprimere la sua intima e personale umanità sviluppando e valorizzando le proprie differenze, per soddisfare la propria sete naturale di libertà.
    L’ equilibrio per conciliare queste due esigenze ed evitare , da una parte, una “felice” schiavitù, e dall’ altra un individualismo percario e angosciato, e i margini di intervento dell’ autorità che di questo equilibrio dovrebbe essere garante, credo che sia il segreto da ricercare e da perseguire, tenacemente e razionalmente; ma con vivace e, perchè no, utopica speranza. La ragione ha i suoi limiti. L’ utopia molto spesso sorprende l’ umanità. Se proviamo soltanto a guardare con gli occhi di qualche secolo fa al mondo di oggi, possiamo facilmente concludere che ciò che in un determinato contesto e periodo storico, con gli strumenti disponibili in quel momento, poteva sembrare utopico, si è sovente trasformato, a distanza di tempo, in una realtà consolidata, e in armonia con i limiti del mondo e dei suoi abitanti. La mente umana si evolve, gli strumenti pratici e intellettuali di cui disporre, le contaminazioni con culture e filosofie diverse dalla nostra, anche. Nuovi equilibri, nuove realtà, sono possibili nella misura in cui il tempo passa, e lo scambio fra i diversi sguardi che gli uomini hanno sulla realtà a seconda delle diverse latitudini del mondo, diventano più possibili, frequenti, e intensi.

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