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Coinvolgere i cittadini nella spending review non piace a nessuno. Come ricorda il Corriere della Sera, non alla Cgil, che definisce l’idea «curiosa» e «strana». Non a Gasparri, Pdl, che ironizza tirando in ballo i «cittadini tecnici», né al collega di partito Antonio Leone, vicepresidente della Camera, per cui è una forma «stravagante» di «volontariato gratuito». Per l’Idv è una «presa in giro» (Donadi). E perfino Beppe Grillo, che sul coinvolgimento dell’intelligenza collettiva dei cittadini in Rete ha basato un’intera filosofia politica, è sprezzante: «perché non chiederlo online alla casalinga di Voghera?» L’idea, poche righe sul sito del governo è un modulo che sembra uscito direttamente dagli anni ’90, imbizzarrisce anche le penne degli editorialisti. Che parlano di «odore di antipolitica» e di «ricerca, un po’ a buon mercato, di consensi del ‘popolo della rete’» (Il Sole 24 Ore); di una «inedita sciocchezza» (Il Giornale); di una operazione populistica in stile Scherzi a Parte (Il Giorno) – ma non sono mancati, altrove, i riferimenti a Striscia la Notizia, Le Iene e Chi vuol essere milionario, giusto per ricordarci a quale bagaglio culturale attingano i nostri commentatori. Tutti sulla stessa linea: a che servono i tecnici se delegano ai cittadini? Argomento valido, se non fosse che pensare che il governo abbia sostituito e non integrato le segnalazioni dei cittadini e il suo lavoro di ricognizione sulle inefficienze di spesa è troppo perfino per Feltri e Belpietro. C’è una doppia malafede, dunque: di chi spara a tutta pagina una notizia tutto sommato di poco conto (è ben più importante – e criticabile – ciò che stanno facendo i tecnici al riguardo), certo. Ma soprattutto di chi passa le giornate ad accarezzare il popolo con la demagogia più violenta, ma soltanto fino a quando non lo si interpelli. La scelta di coinvolgere i cittadini tramite Internet dovrebbe essere la regola, non l’eccezione, in un mondo in cui 2 miliardi di persone usano quotidianamente il web e in cui la metà ha ormai acquisito gli automatismi dell’interazione tramite social media. Sarà un contributo limitato, o perfino nocivo nel caso il sistema non sia in grado, come pare quello in esame, di distinguere informazione e disinformazione? Può darsi, ma ciò non toglie che definire populismo o antipolitica una richiesta di dialogo – per quanto maldestra – con i cittadini rivela non tanto una scelta errata del governo, quanto la profonda arretratezza culturale di chi dovrebbe illuminarci la via con pensieri e decisioni informate. Oltre, perché no, a un certo disprezzo per il cittadino comune. Che può essere condivisibile o meno, ma dovrebbe essere tenuto a mente da lettori ed elettori alla prossima raccolta di firme, al prossimo maquillage in salsa 2.0 o al prossimo ridicolo invito a disertare il canone o le tasse.

Gli “amorosi tormenti” di Feltri e Sallusti.

(Per Farefuturo Webmagazine)

Vittorio Feltri è diventato antiberlusconiano? La domanda suscita da un lato una curiosità morbosa, di quelle che prendono quando qualcosa di inaspettato accade all’interno di una cerchia di colleghi. Così che, è innegabile tra giornalisti, la notizia c’è, e sta nel fatto che a porre il dubbio sia Alessandro Sallusti. Cioè il suo erede al trono del più berlusconiano dei quotidiani. Dall’altro, tuttavia, quel dubbio non suscita un bel niente. Alla meglio un’alzata di spalle, un commento distratto, magari un sorriso. Chissà, forse questo secondo atteggiamento riguarda la gran parte di comuni cittadini e lettori, addirittura di quelli del Giornale e di Libero.

O forse, dopo anni di “personalizzazione” delle notizie, per così dire, è proprio questo che vogliono. Sapere tutto del direttore ex-direttore, per filo e per segno. In prima pagina. Prima degli scontri in Algeria. Prima della strage in Arizona. Meglio capire i capricci di Feltri: perché il berlusconismo è il valore che regge tutti gli altri. Tolto quello, è in crisi un intero sistema di valori. E un modo di fare la professione.

Che è diventata terribilmente autoreferenziale. Oggi un lettore che avesse l’insana intenzione di spendere dei soldi per comprare un quotidiano cartaceo in edicola troverebbe ben tre testate che titolano sulle scaramucce degli ex amanti Alessandro Sallusti e Vittorio Feltri: oltre ai due panzer del centrodestra, c’è la prima del Fatto. Che ironizza: «Compagno Feltri». All’interno, è lui stesso a ricordare, con innegabile modestia, che il Giornale gli starebbe riservando lo stesso trattamento usato con Indro Montanelli: arruolarlo, contro la sua volontà, tra gli avversari politici. Cioè, nella vulgata berlusconiana, tra i «comunisti». Accusa che Luca Telese rispedisce facilmente al mittente.

Ma è solo l’ultimo degli amorosi tormenti. Che erano cominciati quando Sallusti aveva accusato Feltri di non volere più Berlusconi al Quirinale e quindi, in sostanza, di essere un voltagabbana. Perché «lì Silvio come fa con le escort?». Parola del suo ex direttore, che non si è fatto scappare l’occasione per ribadire il concetto espresso in una intervista a Cortina che Libero, sempre secondo Sallusti, avrebbe tagliuzzato per bene, depurandola delle asperità anti-Cavaliere. «Hai perso la testa come quelli che ne hanno poca», ha replicato il diretto interessato, con la consueta franchezza.

Litigi che, come si conviene alle coppie scoppiate, sarebbero stati meglio tra le mura di casa. Invece i due hanno preferito lavare i panni sporchi in pubblico. E il pubblico, volente o nolente, deve annotare l’ennesimo sfondamento del muro che separa fatti e curiosità, mette le priorità al loro posto, aiuta a riconoscere un quotidiano da un tabloid. È per vendere copie, si dirà. Perché il «trattamento-Boffo» piace a certi lettori: divide, arruola, indigna. E piace ancor più se il carnefice ne diventa vittima. Ma è una magra consolazione. E quel pugno di copie in più, messo in prospettiva, non è altro che la conferma di una morte inevitabile. Per inutilità.

E se domani Feltri…

Dunque. Oggi c’è stato il comizio di Bersani a Torino. Quello di Casini a Chianciano. Il discorso di Bossi a Venezia. L’avanspettacolo di Berlusconi ad Atreju 2010. C’è stato il granchio preso da Repubblica – e in prima pagina – sulla presunta volontà (poi smentita) della magistratura romana di sentire Berlusconi nell’ambito dell’inchiesta sulla P3. C’è stato il corteo sullo Stretto di Messina dei precari della scuola di Sicilia, Campania e Puglia. Questo solo per limitarsi agli interni. Poi ci sono stati altri due morti per le proteste sul rogo del Corano (mai avvenuto) e la pratica del “balconing” che fa una vittima italiana a Ibiza. E molto altro.

Insomma, per una volta si è parlato di tutto tranne che di Fini e dei finiani. Domanda: ce la farà domattina Vittorio Feltri, per la prima volta dal 25 luglio, a non dedicare la prima pagina al presidente della Camera?

Per una volta le alternative non mancano, tutte tra le favorite in via Negri: deridere Bersani per il suo linguaggio antiquato? Prendersela col voltagabbana Casini? Incensare Berlusconi per la sua capacità di essere politicamente scorretto, non come i “soloni” della sinistra e la “destra in cachemire” di Filippo Rossi e Flavia Perina? Ridicolizzare Ezio Mauro? Ridicolizzare i precari? Moralisteggiare sui deliri anti-americanisti? Stigmatizzare le follie dei giovani drogati?

O forse Feltri domani avrà, per il cinquantesimo giorno di fila, uno scoop da prima pagina sulla casa di Montecarlo?

Si accettano scommesse.

Tutte le “prime” del Giornale su Fini. Ovvero, tutte le “prime” del Giornale.

Qualche giorno fa è apparso su Freddy Nietzsche un riassunto per immagini della diatriba Fini-Il Giornale, opera di Enrico Bardin, più eloquente a mio avviso di mille parole:

(Clicca sull’immagine per ingrandirla)

Mancano quelle da lunedì a oggi. Che andrebbero aggiunte, data la pertinenza:

Lunedì 6

Martedì 7

Mercoledì 8

Temo che il prode Bardin si sia avventurato in una impresa più grande di lui.

Feltri, perché “Israele ha fatto bene a sparare”?

Nessun distinguo tra pacifisti veri e pacifisti vicini ad associazioni terroristiche. Nessuna sottolineatura della sproporzione tra l’azione e la reazione. Nessun accenno al fatto che delle centinaia di attivisti che riempivano le sei barche della flottiglia non si è saputo nulla per ventiquattro ore.

E poi tante certezze. Dall’editoriale di Feltri:

  • “Gli amici dei palestinesi non avevano il permesso di approdare in territorio israeliano, quindi non dovevano trovarsi in quel punto del mare” (ma la ricostruzione del Corriere sostiene la flotta fosse in acque internazionali, trovandosi a 120 chilometri dalle coste israeliane – quando il limite delle acque territoriali è di sole 12 miglia)
  • “è evidente che progettassero una azione di forza” (evidente in forza di quali prove?)
  • non hanno tollerato le ispezioni e ciò ha provocato la sparatoria” (dunque Feltri ammette implicitamente di aver sposato la versione dei soldati israeliani, dato che gli attivisti sostengono che questi ultimi abbiano iniziato a sparare non appena calatisi sull’imbarcazione dagli elicotteri)

Insomma, “Il minimo che dovevano aspettarsi quelli della Freedom Flotilla era una raffica di mitra”. E’ andata bene che i soldati non abbiano usato dei bazooka o un missile, a quanto pare.

Altre certezze anche da Fiamma Nirenstein, che parla di una “verità capovolta”, di un “diabolico rovesciamento” dei fatti:

  • il carico era “sconosciuto” (ma come, e i controlli delle autorità turche alla partenza?)
  • anche se avesse contenuto aiuti umanitari, Gaza non ne aveva bisogno: “Non era la fame dunque che metteva vento nelle vele delle navi provenienti da Cipro con l’aiuto turco”. E giù a snocciolare valori assoluti (91 camion di farina, 33 di carne…), che senza rapportarsi ai fabbisogni (e dunque se non espressi in termini relativi) non significano assolutamente nulla per il lettore.
  • di certo i soldati non hanno sparato per primi, è proibito dal codice militare israeliano, non è uso di quei soldati”.

Ecco, questo è il modo in cui il quotidiano di via Negri ha trattato questa delicatissima strage, che rischia di avere pesantissime conseguenze a livello geopolitico. Ieri scrivevo di stare attenti a usare l’accetta su temi tanto complessi, e lo confermo: criticare quanto scritto dal quotidiano di Feltri non significa sposare automaticamente e per intero la posizione degli attivisti. Tuttavia spiace notare che al Giornale non ci siano molti dubbi, nonostante le prove scarseggino.

Secondo Feltri ci sono abbastanza dati per giustificare moralmente la strage. Tuttavia è doveroso chiedergli: perché “Israele ha fatto bene a sparare”? Perché tra i pacifisti c’erano simpatizzanti di Hamas? Perché qualcuno di loro – ammesso che sia vero – ha (re)agito impugnando bastoni e coltelli? Perché – ammesso che sia vero – la flottiglia aveva violato i confini territoriali israeliani? Oppure perché il carico che trasportava conteneva – anche qui, ammesso che sia vero – anche materiale “sconosciuto”?

Ecco, chiedo a Feltri: quale tra queste motivazioni giustifica una strage? La sua professione e la sua coscienza impongono una risposta. Soprattutto ora che Israele dichiara che abborderà altre imbarcazioni, se dovessero riprovare a raggiungere Gaza. Che ne dici, Feltri: faranno bene a sparare di nuovo?