Brunetta, i nove giorni e il Nobel per l’economia.

Il Popolo Viola, condividendo sulla sua pagina Facebook la prima pagina del Giornale del 10 agosto 2011, mi ha ricordato che il ministro Renato Brunetta ha ancora nove giorni di tempo per dimostrare le sue doti divinatorie (da premio Nobel per l’economia, eh) sullo stato di salute del Paese:

Coraggio, ministro: ha ancora circa 216 ore. E, per inciso: alla domanda sul «come» mettere tutto «a posto» («Affidandosi alla Banca centrale europea, alla Merkel e Sarkozy?»), aveva risposto: «Balle della sinistra».

Ricorda?

Ad Arcore, nel mezzo degli scontri.

La ragazza prende la rincorsa. È furibonda e sconvolta. La terza carica delle forze dell’ordine, la più decisa, è appena terminata. Nell’aria c’è ancora una elettricità malata, di quelle che si propagano tra le persone quando scatta la violenza. Lei si getta nello spazio dove fino a pochi istanti prima c’erano manganellate e bottiglie di vetro lanciate contro gli scudi trasparenti e, quasi a colmarlo, urla: «Berlusconi, crepa!».

Forse è tutto in quell’urlo istintuale, in quella scarica di adrenalina fatta rabbia, il senso degli scontri avvenuti oggi ad Arcore, a pochi passi dalla villa dove il presidente del Consiglio ha intrattenuto capi di Stato e prostitute con la stessa proverbiale disinvoltura. In quel cortocircuito che identifica Silvio Berlusconi e i giovani in tenuta antisommossa, le sue colpe e le loro, sembrano nascondersi tutti gli altri. Quello che muove la mano del ragazzo che strappa lo specchietto retrovisore da una Clio grigia e lo lancia sui celerini. Quello che fa ritenere normali, consuete le manganellate che hanno aperto un buco nel braccio di un giovane in tenuta mimetica e rasta. Quello che tiene duecento persone a pochi millimetri dallo sbarramento che le separa dalla propria nemesi. Per ore. Unendole quando non accade nulla. Spingendole quando sale il grido di battaglia. Moltiplicandone il coraggio o, se si vuole, l’incoscienza.

È il volto scuro del Giano bifronte andato in scena poco prima. Perché se le danze, i canti, le speranze sono appese a un filo viola intessuto d’insulti, non si riesce a stupire della violenza. Non che ci sia un legame diretto tra la manifestazione, pacifica, a tratti perfino gioiosa e divertita del Popolo viola e la furia insensata di chi siede nel mezzo di un incrocio per impedire il passaggio delle vetture di ignari concittadini, aggredendoli, minacciandoli se dovessero scattare delle fotografie. Non c’è nessun rapporto di causa ed effetto tra lo striscione che dice a Berlusconi «se non vuoi dimetterti, sparati» e la bottiglia di vetro scagliata a tutta forza contro un’auto che chiede solamente di seguire la propria strada.

Eppure chi era oggi nella piazza di Arcore ha potuto respirare la stessa frustrazione, nella piazza e negli scontri, nei balli e nelle botte. Una frustrazione sorda, che ha un unico nome ma molte radici. Il nome, naturalmente, è quello di Silvio Berlusconi. Il mafioso, il puttaniere, la merda, il ladro, il corrotto, il pedofilo. Le radici, al contrario, sono quelle che ciascuno dei manifestanti si porta dentro. E che portano alcuni a sfogare la propria indignazione con un simbolico lancio di mutandine e altri con la forza.

C’è stato un momento, nel pomeriggio, verso le 16, in cui si è respirata l’attesa che qualcosa d’altro accadesse. E la certezza che sarebbe accaduto. È stato quando alcuni gruppetti si sono diretti verso le due imboccature che conducono alla villa del presidente. Già allora si era capito che ciò che stava andando in scena sul palco non aveva più significato. Piano piano la noia si è tramutata in eccitazione. I cori si sono fatti più aggressivi, le distanze tra le persone meno pronunciate. Tanto che gli organizzatori hanno cercato ripetutamente, senza successo, di ricordare che nessun corteo era stato autorizzato, che la manifestazione non avrebbe dovuto degenerare per nessun motivo, che chi avesse mosso un dito contro le forze dell’ordine avrebbe vanificato il lavoro dei tanti che si sono spesi per un pomeriggio di dissenso, e non di violenza.

Ma non c’è stato niente da fare. La rottura si è consumata poco più tardi, nel luogo che sarà teatro degli scontri. Un membro dei gruppi locali del Popolo Viola impugna un megafono, urla con convinzione cercando di persuadere chi vuole il corteo che si tratta di una pessima idea. Un uomo corpulento, tuttavia, gli si fa vicino. Lo guarda dritto negli occhi e gli dice: «Protestare è un mio diritto, lo sancisce l’articolo 21 della Costituzione. E tu chi sei per dirmi come devo protestare?». L’organizzatore cerca di spiegargli che i diritti costituzionali con la violazione del domicilio del presidente del Consiglio c’entrano poco, ma non c’è niente da fare: la folla sta con l’altra parte. Vuole forzare la mano. Lo farà, di lì a qualche minuto.

E allora viene da chiedersi cosa ci sia dietro questa volontà di interpretare la libertà come un bene talmente assoluto da ritorcersi nel suo contrario. Senza generalizzare: perché oggi nove persone su dieci erano venute a chiedere le dimissioni di Berlusconi, bere qualche birra, incontrare gli amici e fare onore alla splendida giornata di sole. Eppure quell’uno restante, a un certo punto, sembrava parlare per tutti e dieci. E anche durante gli scontri, terribili per chi come me non li aveva mai vissuti in prima persona, da pochi metri di distanza, si respirava una unità d’intenti inaspettata. Che ha portato alcuni a provocare le forze dell’ordine e altri a sorridere delle provocazioni. Come se tutti si fosse in attesa di un evento rivelatore, di una redenzione di massa che portasse, di colpo, la giustizia non tanto nel Paese quanto nella mente e nel corpo di ogni manifestante.

Forse è questo macigno d’insensatezza che ci ha tenuti per lunghissimi minuti fermi nella speranza, folle, che qualcosa accadesse, fosse anche il più brutale degli scontri. Che ci ha permesso di giustificare in anticipo quello che sarebbe accaduto. E che magari ha portato le manganellate oltre il consentito, generando reazioni spropositate, altrettanto folli. Chissà. Quel che è certo è che l’insensatezza genera insensatezza, e che della giornata di oggi non resterà che l’ennesima prova di questo banalissimo teorema.

La bufala di Scilipoti (nuovamente) antiberlusconiano.

Ho visto ieri sui blog di Stefano Catone e Wil un post sulle pagine Twitter e Facebook di Domenico Scilipoti, l’ex Idv ora pro-Berlusconi, che è troppo anche per Domenico Scilipoti. Questo:

Il post ha iniziato a girare in rete e si sono subito scatenati commenti ben poco amichevoli, per così dire. E il blog del Popolo Viola ha rilanciato la notizia infarcendola dell’aggettivo «clamoroso». In effetti la notizia, se confermata, sarebbe clamorosa. Peccato che oggi un comunicato dello stesso Scilipoti dia una versione completamente differente della vicenda:

Ho informato i miei avvocati del fatto, così come pubblicato, chiedendo loro di intraprendere le opportune azioni legali, qualora ce ne fossero i presupposti. Non ho mai proferito tali parole.

Come ha fatto notare lo stesso Wil sulla sua pagina Facebook. Morale della favola: a volte l’incredibile è davvero incredibile. E comporta, come corollario, prendere le “difese” di uno come Scilipoti.

Di necessità virtù.

Quando si dice fare di necessità virtù. La terza puntata di Telebavaglio (“contro la censura, la tivù ce la facciamo noi”), idea della redazione del Fatto Quotidiano, somma una serie di punti di forza che non fanno affatto rimpiangere i talk show eliminati dall’insensata par condicio pre-elettorale. 

E’ come se il clima casalingo, l’essere seduti tutti intorno a uno stesso tavolo pieno di giornali, bicchieri e bottigliette di plastica, la lontananza dalle luci dei riflettori, dal pubblico e dai tempi televisivi – è come se tutto questo armamentario dilettantesco avesse restituito al dibattito la sua natura. Come se l’assenza della televisione avesse restituito visibilità e fruibilità al dibattito. Come se oggi fosse possibile fare televisione solamente al di fuori della televisione. 

Anche in questo la Rete è un grande strumento non solo di libertà, ma di genuinità. Penso all’efficacia dei messaggi elettorali che Nichi Vendola, durante le primarie che lo videro trionfatore, affidava a YouTube; alle migliaia di persone raccolte su uStream dal Popolo Viola, capace oramai nell’arco di poche ore di lanciare una proposta su Facebook, riempire una piazza (reale) e allo stesso tempo trasmettere il tutto in diretta per chi fosse costretto a limitarsi alla protesta su schermo. E, da ieri, a Telebavaglio, che dopo un paio di puntate di rodaggio è riuscito a darsi un aspetto accattivante, scandire il dibattito attorno ai temi fondamentali (lasciando a ciascuno la possibilità di comunicare il proprio messaggio in modo chiaro e compiuto, senza urla né attacchi personali) e, finalmente, affidando la conduzione a dei giovani motivati, capaci e tutt’altro che inibiti (Carlo Tecce, Silvia Truzzi e altri). 

Si obietterà che, nel caso in esame, Di Pietro abbia parlato qualche minuto più degli altri; che le domande dei conduttori non abbiano mostrato sufficiente “terzietà” rispetto alla materia in esame; che non si sia prodotto, insomma, quell’impossibile equilibrio di pareri che sembra essere tanto caro alla televisione vera e propria. Può darsi. Ma il bello è che, nonostante questo, ciascuno spettatore ha avuto modo di farsi una propria opinione sulla costituzionalità o meno del dl salva liste, sull’opportunità della firma di Napolitano e sull’incoscienza di un Di Pietro che, stuzzicato da Macioce de Il Giornale (“usando questi toni si rischia una guerra civile, te ne rendi conto?”, ha detto all’incirca) risponde: “ma la colpa è di chi ha ucciso Mussolini o di Mussolini?“. Per fortuna non serve assegnare lo stesso tempo ad ogni opinione, per garantire a ciascuna un equo diritto di cittadinanza: un’idea si può esprimere in un minuto o in pochi secondi, sta a noi comprendere che ciò che conta è il messaggio, e non quante volte viene ripetuto.

Ora non ci resta che sperare che gli italiani imparino a riversarsi in Rete, anche per seguire i dibattiti politici. E che altre redazioni seguano l’esempio di quella del Fatto. Bastano un tavolo, due telecamere e qualche microfono. Coraggio, datevi da fare. Ce n’è un estremo bisogno negli ultimi venti giorni di questa assurda campagna elettorale.

[AGGIORNAMENTO – 21:53]

Detto fatto: il Corriere.it, con tempismo perfetto, ha deciso di inaugurare Mentana Condicio. 

Il Popolo Viola scende in campo? Mannino: “totalmente inventato”.

Il Popolo Viola entra in politica a tutti gli effetti? Libero non ha dubbi, e a pagina 2 annuncia: “Liste viola alle amministrative“. Nel corpo del pezzo si legge:

Il “popolo viola” scende in campo. Non nel senso della piazza […], ma a livello politico. I “nuovi girotondini”, infatti, domani si riuniranno a Napoli. Obiettivo: discutere delle “future iniziative riguardanti le modalità operative dei gruppi locali e della dimensione unitaria nazionale” in vista della possibilità di presentare liste civiche per i prossimi appuntamenti elettorali, amministrative di primavera in testa.

I virgolettati, che su Libero appaiono senza fonte, appartengono in parte al comunicato ufficiale che annuncia l’incontro di Napoli, e in parte ad altre non specificate dichiarazioni. 

La notizia viene ripresa anche dal Corriere del Mezzogiorno, che si spinge fino a ipotizzare la creazione di un partito:

Al centro della discussione, inevitabilmente, la valutazione della possibilità di dare vita ad un vero e proprio partito politico e di presentare liste civiche viola per i prossimi appuntamenti elettorali, a cominciare dalle elezioni regionali che si svolgeranno a marzo. Alla luce delle prossime scadenze elettorali può anche essere interpretata l’esigenza del movimento di dotarsi di regole di funzionamento interno e di un manifesto.

Già sul tavolo anche i “valori da porre al centro dell’azione politica“. Il tutto sarebbe stato annunciato, secondo il quotidiano, dagli “organizzatori” stessi; di cui, tuttavia, “dimentica” di riportare i nomi. 

Per fare chiarezza, ho deciso di contattare uno degli amministratori della pagina ufficiale su Facebook del “Popolo Viola” (oltre 190 mila iscritti), Franz Mannino. Che cade dalle nuvole: si tratta di una notizia “presa dalla loro fervida immaginazione”, “totalmente inventata”. “Il Popolo Viola non diventerà mai un partito; del resto, non è che ne manchino. Al massimo, forniremo una linea di indirizzo ai partiti già esistenti”. Una struttura partitica, inoltre, tradirebbe lo spirito che ha animato le iniziative “viola” fin dall’inizio e farebbe “perdere l’identità al progetto”. Mannino nega che sia all’ordine del giorno una discussione anche sulla possibilità di presentare “Liste viola”: “se qualcuno lo ha ipotizzato, lo ha fatto a titolo personale”. 

Ma allora che cosa motiva i titoli di Libero e Corriere del Mezzogiorno? Secondo Mannino si tratterebbe di una precisa strategia per strumentalizzare e “mettere in guardia i lettori dalle mire politiche” del “Popolo Viola”. E di un travisamento di quanto contenuto nella “tavola rotonda” pubblicata da Micromega, che discute il futuro del “movimento” e la sua forma organizzativa. Nel corso del dibattito Sara De Santis e Alessandro Tuffu, incalzati dall’intervistatore, escludono il ricorso sia a liste che alla forma-partito. Solamente Emanuele Toscano, a pagina 35, sostiene che una lista “in un’ottica di lungo periodo […] potrebbe essere una soluzione”. Non certo per le amministrative di primavera, dunque. 

Un po’ poco per giustificare un pezzo in seconda pagina.