Sull’informazione online il Senato è (di nuovo) al Medioevo

Il problema di rendere economicamente sostenibile e al contempo rinnovare l’informazione online? Altro che progetti come Matter. Altro che abbracciare l’open web. L’On. Butti (Pdl) e gli altri firmatari del ddl 2297 al vaglio del Senato hanno una soluzione: basta far pagare chiunque diffonda articoli online tutelati dal diritto d’autore «allo scopo di trarne profitto».

Come? Questo il ragionamento dei proponenti:

Premessa 1:

i siti internet che prelevano sistematicamente dalle pagine web dei giornali notizie e contenuti editoriali da offrire ai propri utenti, utilizzano indebitamente lo sforzo organizzativo ed imprenditoriale di altri.

Premessa 2:

Tali pratiche sottraggono diritti economici agli editori della carta stampata.

Dato che:

Gli articoli pubblicati dai giornali quotidiani sono tutelati dal diritto d’autore al pari di qualsiasi altra opera dell’ingegno.

Quindi, conclusione:

Ogni uso (in particolare, la riproduzione e la distribuzione, cosı` come la relativa messa a disposizione del pubblico tramite internet) deve essere autorizzato dall’avente diritto, che va individuato univocamente nell’impresa editoriale.

Ma come tradurlo in pratica, nell’era del web 2.0? Semplice: aggiungendo un comma, il 2-bis, all’articolo 65 della legge 633 del 1941. Il seguente:

l’utilizzo o la riproduzione, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, di articoli di attualita` pubblicati nelle riviste o nei giornali, allo scopo di trarne profitto, sono autorizzati esclusivamente sulla base di accordi stipulati tra i soggetti che intendano utilizzare i suddetti articoli, ovvero tra le proprie associazioni di rappresentanza, e le associazioni maggiormente rappresentative degli editori delle opere da cui gli articoli medesimi sono tratti. Con i medesimi accordi sono stabilite la misura e le modalita` di riscossione da parte dell’editore del compenso dovuto.

Internet come fosse di carta, insomma. In altre parole, il Medioevo. Possibile? Sì, se ne era parlato una prima volta due anni fa. Se ne è discusso nuovamente lo scorso 21 febbraio a palazzo Madama. E domani il ddl tornerà in Aula. Per l’avvocato Fulvio Sarzana si tratta di «un Disegno di Legge che sembra tratto più da un libello sulla protezione della  stampa ‘a caratteri mobili’ della fine del 1400 che all’epoca di internet». Per il collega Guido Scorza, «Solo un folle, un censore o un nemico del futuro pensa di subordinare ad un accordo tra soggetti privati l’esercizio di una libertà fondamentale come quella di manifestazione del pensiero».

Scorza spiega anche le incertezze sull’applicazione del ddl, se dovesse essere approvato:

Utilizzare un articolo di attualità online, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, cosa significa? Indicizzarlo? Linkarlo? Inserirne un estratto in un post per commentarlo o discuterlo? La sensazione, sfortunatamente, è che il Sen. Butti stia pensando a tutte queste cose.

In aggiunta, mi limito a ricordare che perfino i proponenti – tra cui Raffaele Lauro, il senatore Pdl che voleva fare dell’uso di Facebook un’aggravante di reato – hanno sollevato delle perplessità non di poco conto (non ultima quella sulla vaghezza dell’espressione «allo scopo di trarne profitto»). Ma evidentemente non abbastanza convincenti da indurre i soliti noti a prendere atto della realtà, invece di provare per l’ennesima volta – e speriamo di nuovo senza successo – a deturparla nel nome del copyright. Un motivo in più per chiedere a gran voce un rinnovamento, ma vero, della classe dirigente.

(Grazie a Giovanni B. Gallus e Morena Ragone per la segnalazione e i contributi. Illustrazione di Rob Donnelly per Slate.)

4 pensieri su “Sull’informazione online il Senato è (di nuovo) al Medioevo

  1. Il gioco in questo caso si sposta su un elemento fondamentale: Gli sponsor. E gli sponsor come si ottengono? con la visibilità. Come se ai giornali non bastassero tutti gli introiti (anche se in ribasso, ad onor di cronaca), basterebbe rinviare al fatto che citando un articolo si ottiene visibilità e quindi sponsor per rivendicare la condizione di un “utilizzo a scopo di lucro”. Ogni attività del web, se si escudono siti amatoriali e molto piccoli può potenzialmente aprirsi a scopo di lucro. Fin qui semplicemente un tentativo di monopolizzare i propri prodotti e impedirne la pubblicazione altrove. Un tentativo non esattamente esaltante ma tutto sommato lecito. Ma c’è di più. Se questo articolo fosse scritto su repubblica e io ora decidessi che questo stesso articolo non mi piace, o è pericoloso, o comunque necessità di essere visto e commentato perché i cittadini ne comprendano il significato, non potrò farlo. Perché? Perché con la scusante dello scopo di lucro potrei essere censurato. Semplice, no? A questo punto abbiamo tre livelli: La fonte della notizia. Da essa il giornalista può comprendere un evento e riportarlo alla collettività. Il fatto è che le fonti ad oggi sono monopolizzate da giornali-partiti, quindi privi di qualsiasi volontà di porsi come elemento capace di riscontrare i fatti. Al terzo livello, quello dei freelance, quello dei blogger o dei giornalisti veri, non rimangono che le misere briciole. Ora sta giungendo un immenso aspirapolvere a eliminare anche quelle. Tutto in una manovra che investe tutto l’occidente, dagli USA all’italia all’intera europa (quella che ad oggi si salva da dittature, quali quella in Russia o in Ungheria).

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