Com’è Internet a Pyongyang

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Il nome del leader in evidenza, in ogni pagina web. Scritto a caratteri appena più grandi, così che si noti. Sempre. Il sistema operativo, ‘Stella Rossa’ (Red Star) conforme alle esigenze del regime. A partire dalla datazione: l’anno è il 101, contato dalla nascita di Kim il-Sung. Lo specifica il ‘readme’, a scanso di equivoci: Red Star promuove i «valori» del Paese.

Su misura anche il browser, un adattamento di Firefox chiamato ‘Naenara’, che conduce solo a una pallida imitazione della varietà di contenuti reperibili sulla rete come la conosciamo. Per chi ne produca di eretici, del resto, ci sono i campi di lavoro.

Questo significa stare in rete in Corea del Nord, secondo il bel resoconto della BBC: navigare tra le maglie – strettissime – di un web addomesticato, controllato, che consente l’accesso alla propaganda del partito e a poco altro. Una Intranet (‘Kwangmyong’) a cui da Pyongyang si può accedere tramite un unico cybercafè – e comunque passando necessariamente per un unico provider di proprietà statale (il che significa che per spegnere la rete basta che il governo prema un bottone).

Per moltissimi, anche se non per tutti, non c’è altro. Niente Twitter, niente Facebook, niente ‘social’. Nessun contatto con il mondo esterno, anche digitale. Tranne che per «qualche dozzina di famiglie», scrive la BBC: le élites vicine a Kim Jong Un. E il leader, naturalmente. Per loro, gli uguali più uguali degli altri, c’è la rete tutta, senza limitazioni.

Eppure qualcosa si muove, suggerisce l’articolo. C’è chi cerca di allacciarsi alla rete mobile cinese, un’oasi di libertà al confronto (ed è noto quanto non lo sia). Anche sapendo che possedere un cellulare «illegale» può costare molto caro. Nessuna ‘primavera nordcoreana’ a base di tecnologia (o di retorica tecnologica) alle porte, sia chiaro. Ma «i cittadini si stanno prendendo dei rischi inimmaginabili vent’anni fa», si legge. Soprattutto, perché si aspettano l’accesso alle nuove tecnologie, sostiene un attento osservatore della realtà nordcoreana. E «il governo non può più monitorare tutte le comunicazioni nel Paese, come faceva in passato».

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Il blackout del blackout di Internet in Siria

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Una menzione in fondo alla prima pagina sul Foglio. Un taglio basso su Avvenire. Un trafiletto su Fatto e Corsera. Una breve su Libero. Niente su Stampa, Repubblica, Unità, Manifesto, Pubblico, Giornale. Nessuna riflessione. Nessun approfondimento. Nessuna contestualizzazione rispetto a un fenomeno che inizia a essere tristemente ricorrente, ma non per questo meno grave. Questo è il modo in cui la carta stampata (non oso immaginare i telegiornali) racconta oggi, ai suoi lettori, il blackout pressocché totale di Internet in Siria.

Un evento non unico, ma raro (è accaduto in precedenza in Egitto e Libia, per limitarsi alla storia recente, e sporadicamente nella stessa Siria), con conseguenze concretissime per la popolazione (totalmente isolata dal mondo esterno), l’informazione (per quale motivo Assad ha girato l’interruttore e spento la Rete?) e l’economia del Paese. Ma raccontato poco e male, specie sulla carta (sulle versioni online di quasi tutti questi quotidiani la notizia, invece, c’è). E questo nonostante il tempo per versare l’inchiostro ci fosse (la conferma delle indiscrezioni è giunta nel primo pomeriggio di ieri), e le fonti fossero affidabili (Renesys, Akamai e Arbor Networks su tutte).

Perché?

Perché la stessa notizia è degna della propria homepage ma non di una pagina di carta?

Questione di concorrenza (gli esteri oggi erano divisi già tra il riconoscimento della Palestina come «Stato osservatore» e il peso della sharia nell’Egitto di Morsi)?

La notizia non è ritenuta abbastanza notizia per finire in pagina?

E’ perché le cose che riguardano Internet devono stare su Internet?

Il tema non è ritenuto abbastanza interessante/comprensibile per il lettore medio?

E’ una questione ideologica (il bello del web si dice tutto e a tutta pagina, il brutto no)?

Un caso?

E’ per altri, imperscrutabili motivi?

Sono domande che mi faccio da tempo, e a cui mi piacerebbe – senza polemica – avere risposta.

(L’elenco di link e risorse utili – costantemente aggiornato – sul blackout di Internet in Siria su Digital Dissidence)

Berlusconi, il tecnoentusiasta

«Attraverso Internet, tutti gli uomini liberi e i Paesi del mondo che credono nella libertà si possono collegare liberamente per trasmettersi di tutto: informazioni, notizie, contratti, merci, prodotti, musica, televisione. C’è la possibilità di entrare, attraverso questo nuovo sistema, in un mondo straordinario dove si possono avere tutte le informazioni possibili, in un numero incredibile, dove ci si possono scambiare tutte le conoscenze possibili, dove si possono comperare – saltando tutti i tradizionali strumenti di diffusione dei prodotti – tutti i prodotti del mondo. Un mezzo importantissimo».

Silvio Berlusconi, Congresso Giovani Forza Italia
Roma, 11 dicembre 1999

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Su Bersani e i «fascisti del web»

Prima di tutto, sgomberare il campo dal non detto: l’espressione «fascisti del web», criticatissima, è giornalistica, e non di Bersani. Quindi non significa che il web è fatto solo di fascisti, che il web porta a essere fascisti, che il web è altro dalla realtà e tutte le altre cose palesemente errate che comporta quella riduzione giornalistica. Cosa ha detto Bersani? Che a volte corrono sulla rete «linguaggi fascisti», e che sia vero è il segreto di Pulcinella: chiunque abbia osato criticare gli integralisti dell’indignazione – che, sia chiaro, ci sono anche nel Pd, eccome se ci sono – lo sa benissimo, e basta scorrere alcuni commenti su questo blog per rendersene conto. Bersani si è poi lasciato prendere la mano dalla foga del comizio, e se ne è uscito con una frase da bullo di periferia, del tipo «andiamo fuori»: «vengano qui a dircelo, via dalla rete, venite qui a dircelo». Ma anche qui non mi pare ci sia la volontà di innalzare un muro tra reale (educato) e virtuale (maleducato), quanto piuttosto di svelare l’altro segreto di Pulcinella, e cioè che fare la voce grossa su Facebook è molto più semplice che farla de visu – per non parlare del fare politica, che in sostanza è il succo dell’intervento di Bersani, se non l’ho capito male. Che poi grillini e dipietristi si sentano chiamati in causa, che il Fatto scomodi la balla del «pensiero unico» (quando solo a sinistra ce ne sono almeno tre o quattro, anche sulla carta stampata), che insomma tanti si sentano offesi è normale conseguenza della traduzione giornalistica del messaggio di Bersani. Che, letto di fretta e dal cellulare ieri sera, aveva mandato su tutte le furie anche me. Perché avrebbe confuso un preciso fenomeno storico – il fascismo – con un banale insieme di insulti e intransigenza; perché avrebbe usato lo stratagemma tipico del berlusconismo («comunisti!») alla rovescia; perché, appunto, avrebbe comportato l’ennesimo endorsement di un politico di primo piano della falsa dicotomia tra realtà e Internet. A sentire le parole di Bersani, invece, queste accuse cadono. Resta la strategia non proprio memorabile di attaccare potenziali elettori e alleati passati, presenti e (chissà) futuri proprio quando li si dovrebbe sedurre – magari chiudendo un occhio – per evitare di essere costretti ricorrere alla ‘grande coalizione’. E di attaccarli ricorrendo al peggior gergo della politica umorale di cui, Bersani lo sa bene, proprio gli integralisti dell’indignazione sono maestri. Un errore non sociologico ma politico, insomma. A meno che l’ottica, al di là delle dichiarazioni, sia proprio quella della ‘grande coalizione’.

Internet non è un soggetto

Non solo, come scrive Sherry Turkle in Insieme ma soli, «ci aspettiamo di più dalla tecnologia e di meno gli uni dagli altri». Ci aspettiamo talmente tanto dalla tecnologia che, quando tradisca le nostre aspettative, siamo pronti ad attribuirle la colpa di qualunque effetto perverso si sviluppi da questo terribile malinteso. In principio, si potrebbe dire, era la domanda di Nicholas Carr: Google ci rende stupidi? Una formula scarsamente scientifica, ma fortunata. The Atlantic, che aveva ospitato la provocazione di Carr, l’ha ribadita nel pezzo di copertina di maggio 2012: Facebook ci sta rendendo solitari? Ora tocca a Newsweek, con una lungo e apocalittico resoconto intitolato Internet ci rende pazzi?  L’assunto di fondo che lega tutte queste analisi è chiaro: è Internet che sta rimodellando la nostra architettura neurale; Internet che ha fatto sì che «non siamo mai stati così separati l’uno dall’altro»; ancora e sempre Internet che «incoraggia – o addirittura promuove – la follia». Così che fa sorridere il tentativo di Tony Dokoupil, autore del pezzo su Newsweek, di sottrarsi a una critica di questo tipo con una semplice affermazione di principio: «Internet ci rende pazzi? Non la tecnologia in sé». Come dimenticandosi di avere appena finito di sostenere che la rete non è un mezzo qualunque, ma «un ambiente mentale tutto nuovo, uno stato di natura digitale dove la mente diventa un pannello di controllo che rotea, e pochi ne usciranno indenni». Parole espresse più chiaramente subito dopo dallo psichiatra di Stanford, Elias Aboujaoude: «C’è proprio qualcosa nel mezzo che crea dipendenza». Ma se il mezzo non è neutro, significa che può essere responsabile. E che noi, gli esseri senzienti che l’hanno creato e lo controllano, ne siamo le vittime. Ora, che ogni mezzo di comunicazione abbia delle proprie caratteristiche è indubbio. E se gli effetti collaterali dell’iperconnessione sono oggetto di dibattito nella comunità accademica come, in maniera crescente, tra i comuni cittadini, non può essere solo per effetto del sensazionalismo mediatico. Qualcosa corre sotto la nostra pelle, e ci inquieta. Ma attribuire una soggettività a Internet, e caricarla del peso di tutte le frustrazioni contemporanee, non dice nulla del perché così tante persone preferiscano il multitasking all’approfondimento o una chat su Facebook a una passeggiata. Certo, la tecnologia le induce in tentazione, ma sono le persone ad assecondarle. Non solo. Reificare Internet rende più semplice essere tecno-scettici. Scriviamo troppi commenti superficiali? Colpa di Twitter, che ci costringe a esperimerci in 140 caratteri. Non siamo attenti alla nostra privacy? E’ perché le condizioni di utilizzo dei nostri dati sono troppo complesse e cangianti. E via dicendo, fino alle conseguenze paradossali che si possono tirare da ipotesi come quelle recentemente ripetute da Andrew Keen sulla CNN: siamo assassini? Colpa di Call of Duty. Con queste premesse, sarebbe da irresponsabili non assumere un atteggiamento di forte perplessità nei confronti dei nuovi media. Il punto è che sono premesse errate, perché anche quando attribuiamo alla tecnologia ciò che dovremmo aspettarci dagli esseri umani – intelligenza, amicizia, equilibrio psichico – sono sempre quegli stessi esseri umani a decidere delle loro sorti attraverso la tecnologia. Non c’è nulla di necessariamente deviante nel mezzo Internet: semmai c’è la debolezza di alcune persone, che si riversa su Internet come fosse una terapia, e non un mezzo per portare a compimento degli obiettivi. Se non ci fosse, con ogni probabilità la riverserebbero altrove – non a caso i risultati scientifici parlano di correlazioni, non di cause. Poi c’è un secondo pensiero, anche più preoccupante: che non si capisce che cosa far seguire a quelle forme di tecno-scetticismo. Ammettiamo Internet ci renda più stupidi, solitari e disturbati. Significa che dovremmo consentirne l’utilizzo solamente per poche ore al giorno? Che certe prassi digitali dovrebbero essere vietate? Se non è questione di responsabilità individuale, ma di qualcosa di intrinseco a quelle tecnologie, non si può rispondere dicendo che basta che le persone stiano più attente nell’utilizzo che ne fanno: servono regole, ferree, per fare in modo che quegli effetti necessariamente nefasti siano minimizzati. E’ una prospettiva terribile, ed è alimentata a ogni articolo che assuma la forma di quelli recentemente pubblicati da The Atlantic e Newsweek. Se invece ci concentrassimo sulle responsabilità umane, e sul fatto che mentre su certe persone l’utilizzo anche intensivo di Internet ha effetti nocivi su altre non ne ha affatto, allora potremmo iniziare una conversazione – questa sì – necessaria su come rapportarci a una tecnologia sempre più invasiva nelle nostre vite. E, per esempio, discutere su come remunerare maggiormente quei lavori che, per la loro natura, costringano a farne un uso intensivo. C’è tutto un mondo da scoprire una volta che si liberi la riflessione sulle conseguenze sociali e antropologiche della tecnologia dalla retorica deterministica che impone che Internet sia un soggetto agente. Ed è un mondo fatte di carne e ossa, prima che di bit e fibra ottica.