Lettera aperta a Mark Zuckerberg

Caro Mark Zuckerberg,

ho deciso di prenderti sul serio. E pensare che, quando nella tua lunga lettera agli azionisti scrivi che a Facebook «non creiamo servizi per fare soldi, facciamo soldi per creare servizi migliori», tu sia sincero, e non stia infarcendo una offerta pubblica d’acquisto miliardaria di belle parole. Spulciando qua e là nel documento, tra l’altro, ho scoperto che intendi far adottare alla dirigenza dell’azienda un «codice etico d’impresa», che sarà pubblicamente reperibile sul sito di Facebook. Anche in questo caso, c’è il rischio – fortissimo – si tratti solo di belle parole.

Vedi Mark, mi fa piacere ti interessi mantenere il web libero e aperto. Ma sono meno fiducioso di te quando scrivi che «dando alle persone il potere di condividere» si amplifichi il suono delle loro voci e, di conseguenza, «non possono essere ignorate». O meglio: certo che Facebook è uno strumento utile a far dialogare cittadini e istituzioni, e diffondere il dissenso politico, per esempio. Ma non credo, come te, che ciò comporti che «emergeranno leader in tutto il mondo che siano pro-Internet e lottino per i diritti dei loro cittadini, compreso il diritto di condividere ciò che vogliono e il diritto di accedere a tutte le informazioni che le persone vogliono condividere con loro».

A livello di governance globale i rapporti sull’argomento dicono il contrario. Pensa al giovane sudcoreano che rischia sette anni di carcere per un retweet. E nella democraticissima Corea del Sud, non in uno spietato regime autoritario (vedi, forse più Internet non significa necessariamente più democrazia). Pensa all’uso dei social media per identificare i dissidenti da parte dei dittatori. Pensa, soprattutto, a quanti attivisti siano stati messi in pericolo dall’uso – magari inconsapevole – della loro reale identità, come richiesto da Facebook. Il pensiero ti ha mai sfiorato? Non si direbbe, dato che nella lettera scrivi addirittura che la politica della «identità autentica è al cuore dell’esperienza di Facebook», e che credi che sia «centrale per il futuro della Rete».

So bene che Facebook non è nato come uno strumento per fare dissidenza politica. E so altrettanto bene che il profitto ha le sue logiche, e impone certi sacrifici. Tuttavia, anche se si tratta di un documento richiesto dalla SEC, e dunque da un’autorità finanziaria, rattrista leggere che la censura del social network in paesi come Cina, Iran, Corea del Nord e perfino la Siria – sconvolta da una sanguinosa guerra intestina proprio in questo momento – ti preoccupi solamente per le possibili ricadute economiche negative derivanti dal non potere entrare in mercati a cui magari concorrenti diretti potrebbero avere accesso. Per la Cina, in particolare, sei conscio dell’ostacolo rappresentato dalle potenziali richieste censorie del governo – ma per «il danno potenziale al nostro marchio e alla nostra reputazione», più che per le vite che sarebbero messe in pericolo.

Quel passaggio era l’occasione per un richiamo alla tutela dei diritti fondamentali dei tuoi utenti, Mark. Per dire che, se dovessi entrarci, non ti piegheresti alle richieste dei dittatori. Così da onorare la mission aziendale da te stesso dichiarata. E dire chiaramente cha hai compreso che un codice etico d’impresa, per un veicolo di informazioni e confronto come Facebook, è anche e immediatamente un codice etico in senso più ampio. Del resto – lo spiega chiaramente la teoria dei «cute cats» di Ethan Zuckerman – gli attivisti non possono semplicemente abbandonarti e rivolgersi su piattaforme a loro dedicate: il risultato è voci più deboli e più cloni della tua creatura su base nazionale pronti a censurare a volontà. Che facciamo, gli diciamo che su Facebook potranno far sentire più forte la loro voce e poi li abbandoniamo se, udendo quella voce, qualche governo li ha mandati in galera e buttato via la chiave?

Come ti scrivevo all’inizio, Mark, voglio prenderti in parola. Dunque, quando avrai raccolto i miliardi di dollari che il mercato non vede l’ora di darti, prova a tradurre in fatti quella bella frase, «non creiamo servizi per fare soldi, facciamo soldi per creare servizi migliori». Un inizio potrebbe essere un impegno, all’interno del codice di condotta dell’azienda, a tutelare con ogni sforzo i diritti umani dei tuoi utenti – magari rimuovendo l’assurda guerra all’anonimato che ritieni – trovo a torto – tanto importante.

Si tratterà presto di un miliardo di persone, Mark, di cui una parte usa Facebook anche come strumento per organizzare e diffondere dissenso politico. Ecco, è il modo in cui saprai relazionarti con questa parte della tua utenza che farà capire se Facebook ha a cuore «creare servizi migliori», e intende davvero incoraggiare un dibattito «onesto e trasparente» tra cittadini e governi. Categoria di cui mi sembra tu faccia sempre più parte, tra l’altro.

Ti invito dunque, in conclusione, a provarci – meglio se di concerto con altre piattaforme come Google e Twitter, le cui recenti decisioni sulla gestione dei contenuti dei loro utenti hanno fatto tanto discutere. Sai, Mark, non si ha per sempre il potere di farsi ascoltare dal mondo intero. E non si ha per sempre l’opportunità di fare qualcosa per cambiarlo. Io non ti chiedo tanto: vorrei solamente contribuissi davvero a mantenere la Rete libera e aperta, oltre che apprezzarne i benefici. Ed essere certo che non stai pericolosamente rinunciando al tuo stesso obiettivo di fondo – se mai lo hai davvero avuto a cuore.

In fede,

Fabio Chiusi

(Immagine di Charis Tsevis)

8 pensieri su “Lettera aperta a Mark Zuckerberg

  1. Scusate, davvero ha usato parole come “Rete libera” o “Aperta”? E non gli hanno riso in faccia? Facebook contribuirebbe ad una rete “Libera” e “Aperta”? Facebook?

  2. Secondo me avrebbe fatto meglio a dire «creiamo servizi inutili per fare soldi, facciamo soldi per creare altri servizi inutili e fare ancora più soldi». Quando ci renderemo conto che non abbiamo bisogno di Facebook?

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