Cara Sozzani, un briciolo di coerenza.

Vogue Italia lancia (criticabili) appelli per la chiusura dei siti pro-ana, ma ospita foto come questa:

E come queste.

Mi associo dunque alla richiesta della pagina Facebook «Donne Ultraviolette»:

Vogue si IMPEGNI a eliminare dalle proprie pagine gli esempi devastanti di figure sottopeso sempre presentati come il top del glamour e dello stile. Signora Sozzani: dia un esempio al settore in cui opera e si impegni a rifiutare tutte le modelle dal BMI under 18. Lei ha la forza per farlo.

E aggiungo: un briciolo di coerenza, grazie, prima di aprire la bocca.

L’anoressia? Colpa di Facebook.

Il meccanismo è sempre lo stesso:

1. Una università o un centro di ricerca pubblica uno «studio» che mette in relazione Facebook a una malattia.
2. I giornali, avidi di notizie di questo tipo, ne riportano i risultati in modo totalmente acritico e, nella maggior parte dei casi, senza averlo letto né premurarsi di menzionarlo.
3. Qualche commentatore ne approfitta per farci un bell’editoriale sui rischi della contemporaneità. E alcuni lettori reagiscono in preda al panico.

Tutti elementi che si possono ritrovare nel caso più recente. Dopo l’asma, la sifilide, la depressione e chissà quanti altri accidenti, Facebook è incolpato di causare l’anoressia. L’università autrice dello studio è quella di Haifa. Gli autori Yael Latzer, Ruth Katz e Zohar Spivak della facoltà di Social Welfare and Health Sciences. Le conclusioni?

[…] più tempo le ragazze trascorrono su Facebook, più soffrono di bulimia, anoressia, insoddisfazione fisica, immagine fisica di sé negativa, approccio negativo alla nutrizione e maggiore urgenza di una dieta per perdere peso.

Almeno, stando alla press release. Perché dello studio in sé non c’è traccia. Né, tanto meno, della metodologia adoperata. Si sa solamente che si tratta di una survey, cioè di un questionario, sottoposta a 248 ragazze di età compresa tra i 12 e i 19 anni (età media 14,8). Sconosciuto il contenuto delle domande che fondano la conclusione sul ruolo di Facebook nello sviluppo dei disordini alimentari.

Questa volta, tuttavia, non è colpa dei soli giornalisti: è la stessa università di Haifa, infatti, a non fornire alcun dettaglio. Come mai?

La catena, a ogni modo, non si ferma. E raggiunge il blog del direttore di Vogue Italia, Franca Sozzani, che decide di dedicare un post all’argomento che si apre a questo modo:

Sozzani riprende lo studio, che spero abbia letto. E ci aggiunge un commento:

[…] ora si scopre che non tutta la colpa è dei genitori e neppure della moda e delle modelle. Più ore passi su Facebook e più aumentano le possibilità di diventare anoressiche. Leggendo l’articolo sembrava che la colpa andasse a questo famoso social network perché propone modelli virtuali che le ragazze tendono ad imitare. Modelli sbagliati, a volte anche falsi, perché frutto di lavori di photoshop. Le più giovani si sentono inadeguate a questi modelli e per imitarli si rovinano la salute. Accettano passivamente dei messaggi e si adeguano. Distruggendosi a volte per sempre.

La posizione è di un’ipocrisia inaudita. Ma come, il direttore di un giornale di moda, dove l’uso di photoshop per ottenere bellezze innaturali è il pane quotidiano punta il dito su Facebook, che è proprio uno dei luoghi dove circolano i lavori photoshoppati delle riviste di moda di tutto il mondo? Facebook, cara Sozzani, non «propone» un bel niente. Sono i suoi utenti che decidono che farci circolare. E se circolano immagini che propongono «modelli sbagliati» è perché ci sono riviste che le producono.

Il direttore poi avanza qualche timido dubbio, dice che Facebook può essere usato anche «in modo positivo» e che «non si risolve il problema incolpando un social network» ma «mobilitandosi per chiudere» i «siti o blog» che inneggiano all’anoressia. Una posizione comprensibile, ma che rigetto in toto, perché resta da capire come si possa attuare senza tagliare con l’accetta, e dunque con la censura, laddove servirebbe il bisturi. Senza contare che l’unico modo per rendere effettivo un simile progetto sarebbe impedire la nascita di siti di questo tipo. Il che significa filtri preventivi ai contenuti che finirebbero inevitabilmente per compromettere la libertà di espressione in rete anche di chi non abbia alcun intento di insegnare a diventare anoressici. No, grazie.

Ma di tutto questo al giornalista medio non interessa un bel nulla. Ed ecco, immancabile, l’editoriale del Corriere della Sera, che insinua il sospetto:

Colpa dei genitori? Purtroppo. Colpa della moda? A volte. Colpa di Facebook? Forse, chissà. (p. 58, la firma è Isabella Bossi Fedrigotti)

E ancora nessuno ci ha spiegato di che stiamo parlando. Proprio quello che serviva per aiutare i malati di anoressia. Grazie infinite.