Il grado zero della politica

Forse abbiamo compiuto un salto, con le larghe intese, nel vuoto istituzionale. Forse abbiamo raggiunto il grado zero della politica. Non è solo che l’intero quadro si sta sfaldando. Non è solo che i partiti ora litigano al loro interno ma stanno tutti insieme, uniti al governo ma separati all’opposizione di loro stessi – una maggioranza talmente vasta da diventare opposizione. È che c’è un punto di saturazione perfino nella disattenzione dell’opinione pubblica, e lo abbiamo raggiunto. Siamo al colmo dell’indifferenza: da qui o si risale o si scivola nella rabbia. In quella genuina, radicale, che investe i metodi, non i contenuti. Che prende la democrazia, l’Europa, lo Stato, i partiti, perfino il Parlamento. Che non si accontenta degli aggiustamenti, e del resto non sono venuti, ma pretende una sostituzione. Della democrazia con altro. In Italia sta avvenendo, tra uno scandalo e l’altro, tra la saga di Berlusconi e del Paese e una serie infinita di annunci cui non corrisponde nulla se non contrappesi o l’inerzia. La sensazione è netta non solo guardando ai disastri macroscopici: è nelle persone. Troppi anni a parlare di nulla. Troppi anni ad appassionare il lettore su cavilli che non avranno alcun reale effetto. Troppi camuffamenti della lingua, troppe parole insensate, che non significano più nulla e nemmeno riescono più a trovare il pudore di cercare di nascondersi dietro a un significato. Troppi ultimatum cui ha fatto seguito un’altra ultima chance. Troppe date inderogabili derogate. L’elettore che guarda i partiti azzannarsi per ridisegnarsi in modo che il potere combaci, come il puzzle nell’incastro, non vede altro che quello: una lotta per il potere fine a se stessa, perfettamente inutile se non per i direttamente in causa. Ovunque guardi non vede idealità, e di conseguenza si disinteressa. Poi c’è la politica che sopravvive, quella che ancora si infiamma: ma è totalmente invisibile al racconto mediatico del paese. Soprattutto, manca della forza di ridisegnarlo nel suo assetto di fondo, che è ciò di cui ci sarebbe bisogno. Può tenerlo in vita nelle comunità locali, nelle piccole aggregazioni: ma non appena sfiora il potere, quello vero, diventa altro, si abbruttisce, comincia a parlare un’altra lingua – quella che non conta nulla, non produce nulla, non significa nulla. Per il potere, la situazione è congeniale. Ha un popolo iperattivo che reagisce a ogni stimolo, demagogia o meno non importa, e un sacco di stimolanti sotto forma di annunci, litigi e calciomercato di partiti. Soprattutto, ha un popolo che si è stufato di ascoltare ciò che ha da dire il potere, e anche quando avrebbe qualcosa da chiedere sul serio ormai rinuncia perché tanto dall’altra parte non ci sentono. Così si è distratto, e chiede distrazione. Il potere, come ogni potere, è ben lieto di fornirne. E tutto si regge, e quel che sembra è che ci sia un sacco di vitalità di militanti che votano a un congresso, militanti che applaudono a un altro, e la base che discute su questo, e la base che discute su quello, e si compilano duecentomila questionari online, e in ogni caso c’è Internet che risolve ogni problema. Se c’è una massima distanza tra entità astratte come il popolo e il potere invece l’abbiamo raggiunta, e non si vede all’orizzonte alcuna forza sufficiente a riavvicinarle anche per via di questo terribile inganno ottico in cui siamo intrappolati, a vedere tutto che si dimena come stesse ballando e invece sono gli spasmi di un morto.

L’unica cosa da dire sul caso Berlusconi

L’unica cosa da dire sul caso Berlusconi è che in qualunque Paese civile un ex quattro volte presidente del Consiglio condannato in via definitiva per frode fiscale si fa da parte, mentre nel nostro non si fa da parte nemmeno dopo aver detto – e in televisione, cioè nel suo habitat naturale – che un qualunque rappresentante delle istituzioni condannato per evasione fiscale in via definitiva avrebbe dovuto farsi da parte. Tutta la polvere sollevata dalla condanna a oggi e nei prossimi mesi – che si traduce in sostanza nel promuovere l’eversione (tra gli applausi), e anzi definire il rispetto della legge eversivo – serve a nascondere questo elementare pensiero di civiltà e sanità mentale e istituzionale. Lentamente, un cavillo e una minaccia al giorno. È un confine della democrazia, quello che stiamo sperimentando. E si consuma tutto a partire da questo: il leader del centrodestra non accetta il verdetto della giustizia, che ritiene nei suoi confronti irrimediabilmente corrotta, e anzi per questo vuole dirsi statista. Senza combatterlo dopo essersi fatto da parte, come del resto detta lo spirito di una legge – la Severino, oggi causa di ogni male – votata anche dal suo stesso partito proprio per moralizzare la politica e ottenere l’inverso della situazione che Berlusconi ha prodotto: ma in prima linea, diffondendo l’idea che tre gradi di giudizio non siano sufficienti a dimostrare la validità di una sentenza, che una condanna definitiva possa leggersi come una non condanna e non definitiva, e che in sostanza dovrebbe essere il giudizio della politica sulla giustizia a stabilire la fine della politicizzazione della giustizia. Ogni altro pensiero, di fronte a questo, si arrende, come di fronte a qualunque contraddizione. Berlusconi se davvero volesse mantenere il rispetto della forma democratica dovrebbe farsi da parte, problemi della giustizia o meno. Il resto sono dettagli inutili che portano sulla strada dell’autocrazia, e noi dovremmo imparare a trattarli come tali.

Perché l’isteria falchi-colombe

Temo di avere un’idea che motivi l’isteria (anche mediatica) falchi-colombe di questi giorni. Serve un ragionamento un po’ articolato per spiegarla, ma ci provo. Calcare la mano sulla divisione tra «falchi» e «colombe» – con derive ornitologiche al limite del ridicolo come nell’intervista odierna a Carlo Rossella – serve ai sostenitori del governo Letta per lanciare un messaggio molto chiaro a chi lo vorrebbe sfasciare. E cioè in primis a Silvio Berlusconi. Fosse una lettera al Cavaliere, il messaggio sarebbe all’incirca il seguente:

Caro Silvio, se fai cadere l’esecutivo della «pacificazione», non pensare di andare alle urne. Non è tanto che ti sarebbe controproducente, come ti stiamo spiegando da giorni (poi, chissà come, Silvio le elezioni se le gioca sempre) nonostante ti stiamo al contempo spiegando per l’ennesima volta che sei morto e sepolto (poi, chissà come, Silvio risorge sempre). No: è che alle elezioni non ti mandiamo. E sai perché? Perché, come tentiamo di farti capire da un pezzo, ci sono le «colombe» che non vogliono il governo cada. Sai bene chi sono. Sono quelle che volavano sui nidi dei convegni montiani e di quello che in Italia si ama definire un po’ ad cazzum analogo del partito popolare europeo, quell’altra volta che ti avevamo dato per spacciato – l’ultima, per l’esattezza. Ecco, quei pennuti sarebbero i primi a tradirti per sostenere un Letta-bis benedetto da Napolitano. Che le proverebbe tutte, prima di rimetterti in mano l’arma del voto (evidentemente, chi ha le carte in mano sa che si deve andare oltre il bluff della vittoria-annunciata-del-centrosinistra). Insomma, il piano è rifare le larghe intese, e se sono un po’ meno larghe e un po’ più intese meglio: l’esecutivo sarebbe più compatto, e perfino più passabile agli occhi degli osservatori. Lupi, Gelmini, Formigoni e affini ci starebbero. Scelta Civica ci starebbe. Casini anche. C’è il GAL – e, scrive il Corsera proprio oggi, alcuni iniziano a dire esplicitamente che ci starebbero pure loro. Chissà, magari rispunterebbe qualche «moderato» di centrodestra scomparso dai tempi di Fini. Il Pd anche sarebbe della partita – dopo aver governato con Santanchè e simili, perché no? E del resto, se si può prendere un altro po’ di tempo nell’attesa che l’astro di Renzi si consumi, meglio. Non lo pensano forse in molti, sotto sotto? Insomma, caro Silvio, qui il progetto è rifare la DC, non Forza Italia né il partito dei tuoi odiati comunisti o qualche surrogato che sia presentabile nel 2013. E poi figurati se torniamo a votare con il Porcellum. E se vince Grillo? E se vinci tu? (Questa domanda implica una contraddizione, ma è lo stesso nell’aria) Ci sono dei comandamenti economici da rispettare, per dio! Non è che qui, in tempi di crisi, si può esercitare la sovranità popolare. Qui si deve obbedire, altrimenti si finisce come la Grecia. Facciamo i compiti, dunque, e torniamo a quando si era felici per davvero: quando la democrazia voleva dire che a governare era sempre lo stesso partito. È per il bene del Paese, naturalmente: non del nostro. Affatto. Per nulla.

Fuor di lettera immaginaria, il mantenimento dello status quo penso sia anche la reale ragione per cui chi ha in mente questo progetto non vuole vinca Renzi. Si teme faccia rotolare davvero qualche testa. Che cambi realmente qualcosa, dove conta. Guai: meglio stare tutti insieme appassionatamente, come ai bei tempi, in un ecumenico abbraccio.

Schifati

Giustizialisti schifati coi garantisti. Garantisti schifati coi giustizialisti. Dignitari della Costituzione schifati con il condannato in via definitiva. Il condannato in via definitiva schifato con i magistrati (parte di loro) perché distruggono la Costituzione. Commentatori schifati con chi non commenta. Chi non commenta che commenta per non commentare, schifato. Il condannato in via definitiva schifato in video a reti unificate senza contraddittorio – né alcuno che lo incalzi, dopo (è una fase «drammatica», dicono, della storia italiana – la condanna, non il fatto che non conduca ad alcuna conseguenza, li schifa). Il video schifato da chi lo guarda. Chi lo guarda schifato da chi è schifato a guardarlo. Gli elettori del Pd schifati con il Pd. Il Pd schifato dagli elettori del Pd. Gli elettori del Pdl schifati da quelli del Pd schifati con il Pd (quello non schifato dal condannato in via definitiva). Gli elettori del Pd che schifano il Pd e schifano pure il Pdl e il condannato in via definitiva. I Cinque Stelle che li schifano tutti. I giornalisti schifati dai giornalisti. I politici schifati dai politici. I giornalisti schifati dai cittadini. I cittadini schifati dai giornalisti e dai politici. L’Italia che schifa Berlusconi. Berlusconi che schifa l’Italia. Tutti schifati con tutti.

Il governo Letta e la vittoria di Silvio

Il governo Letta, il necessario e responsabile governo Letta, non è nemmeno nato che già se ne vede la fine. È nel suo dna, del resto. Nella sua stessa costituzione. Un governo nato perché il Pd ha perso le elezioni, due mesi a caccia di se stesso prima ancora che dei numeri per una maggioranza, la faccia nelle vicende che hanno portato al Napolitano-bis. E ora che un presidente del Consiglio l’ha ottenuto, pure la reale capacità decisionale sul suo stesso governo. Perché la regia è altrove. Ed è nelle mani di Berlusconi.

È lui ad avere tutto l’interesse a giocare a fare il responsabile, lo statista che antepone il bene del Paese al suo, favorendo la nascita delle larghe intese (come aveva detto da un minuto dopo il risultato delle urne – mostrando pure una insospettabile coerenza). Lui a poter costringere i comunisti a realizzare qualche punto del suo programma elettorale e poi, dopo che il Pd si sarà ulteriormente allontanato dalla sua ‘base’ nel farlo, rompere con un pretesto qualsiasi e portare il Paese di nuovo alle urne – col vento dei sondaggi nelle vele. La strategia è nota: ho stretto un patto con gli avversari, ma solo per realizzare il nostro programma, per il bene della nostra gente e del Paese – ma ora questa anomalia non è più accettabile, si deve ritornare la parola agli elettori, la sovranità deve essere popolare. È quanto ha fatto con il governo Monti, non si vede perché non dovrebbe ripetersi ora.

A meno che, naturalmente, il Pd non si prostri al punto di rifarne un padre costituente dandogli un posto di rilievo nella nuova bicamerale (tra i democratici qualcuno ricorda come finì con D’Alema?), rilanciandolo addirittura per la corsa al Quirinale quando il bluff del Napolitano-bis si sarà svelato per ciò che è: un modo per prendere tempo e rientrare in gioco.

Berlusconi, tuttavia, sembra stare giocando più la prima, che la seconda partita. Già oggi, minaccia di non dare la fiducia al Senato se non sarà garantita l’abrogazione dell’IMU per il 2013 e il rimborso delle quote versate nel 2012: «Non potremmo essere parte di un governo che non attuasse queste misure, né lo sosterremmo dall’esterno». La domanda è: quante altre volte sarà in grado di farlo? Quanti altri diktat del Cavaliere sarà costretto a digerire il Partito Democratico nel tentativo di capire, nel frattempo, quale sia la sua «identità forte» (Letta sostiene ci sia già, e per questo le larghe intese non siano un problema – io invece credo non ci sia, e sarebbe un problema comunque)?

Nel gioco, a rimanere col cerino in mano e bruciarsi rischia di essere proprio il Pd: con da una parte il M5S che può rivendicare – a ragione, ahinoi – la realizzazione del suo teorema («sono tutti uguali»); e dall’altra il Pdl e Berlusconi, che potranno ripresentarsi agli elettori con in tasca il farsi realtà di alcuni punti del suo programma, intestandosi la fine (desideratissima) dell’«inciucio», il ristabilirsi di una normalità democratica che abbiamo smarrito oramai da novembre 2011 e giocare un’altra campagna elettorale contro un avversario che difficilmente sarà maggioritario nel Paese (Grillo) e, al solito, un non-avversario (il centrosinistra).

«Non c’erano alternative», dicono i bene informati. Alla sconfitta, dovrebbero aggiungere. A meno che non credano davvero che un governo composto da chi fino a ieri passava il tempo a insultarsi possa realizzare in 18 mesi ciò che non è stato fatto nei 18 anni passati, appunto, a insultarsi. Io non ci credo, e forse nemmeno loro. Ciò che non capisco è se si rendano conto o meno che, a meno che non siano in grado di rivoluzionarsi completamente (ma come?), a uscirne vincitore sarà Berlusconi.