Laicità positiva

Smettiamola di seccare i neodemocristiani e i loro alleati con stupide domande sulla fine del Medioevo sui diritti civili in Italia. Impariamo tutti da Gianfranco Fini: lasciamo la questione al di fuori dei programmi politici. E vantiamoci dell’omissione. Poi, se e quando si presenterà l’occasione per dibatterne in qualche talk show o aula di Commissione, potremo sempre venderci la storiella della libertà di coscienza sui temi etici. Che fa tanto democrazia avanzata. E’ il ritornello che hanno intonato Monti e i suoi in questi giorni, da posizioni di insospettabile terzietà come quelle di Andrea Riccardi o Pier Ferdinando Casini, noti per rappresentare posizioni estremamente malleabili sui valori non negoziabili. «Tutta la nostra agenda mira a smitizzare i luoghi comuni», ha detto il premier uscente, insospettendo le gerarchie ecclesiastiche. «Non si può catturare la buona fede dei cittadini sulla patrimoniale o sui temi etici». Notare l’accostamento. E poi i temi etici, altra insignificante espressione postdemocristiana che sta per posso decidere della tua vita e della tua morte, sono importantissimi – sia chiaro – ma «fanno meno parte dell’urgenza». Basta chiudere gli occhi, e il problema sparisce. Almeno per un po’. Almeno fino a dopo le elezioni. Quando ci si potrà ritrovare in Parlamento con da una parte una sinistra che su questi temi progressista non lo è mai stata e dall’altra una destra che già di Monti e dei suoi dice: «Non ha coraggio» (Sacconi), «è evasivo» (Gasparri), «mette in imbarazzo la Chiesa» (Santelli, che ha almeno il pregio di dare pane al pane e pesci ai pesci). E tirare a campare per un’altra legislatura, mentre noi non possiamo decidere come morire, o chi amare. Del resto, «noi non siamo un partito ideologico»: assicura il fondatore della Comunità di Sant’Egidio. In altre parole, sapete quello che pensiamo, ma non possiamo dirvelo. Così l’omissione diventa un pregio, e la presa di posizione un difetto. E si ritorna a Fini. E a questo ‘capolavoro’ politico: «Mi piace anche sottolineare come i temi etici siano stati lasciati fuori dall’agenda di governo. Questa è quella laicità positiva tipica di altre democrazie». Che nelle «altre democrazie» lo avrebbero chiamato «paraculismo» e non «laicità positiva» fa parte di quella terribile, spaventosa perdita di significato del linguaggio con cui questa politica ipocrita ci costringe a misurarci quotidianamente. Ma a lui «piace» sottolinearlo. E anche a noi.

Ronchi dixit.

28 marzo 2010: 

«Quando leggo che dopo le elezioni ci sarà una resa dei conti tra Fini e Berlusconi mi viene da sorridere»

17 aprile 2010:

«Qui il problema è che all’interno del Pdl c’è qualcuno che lavora per distruggere. Ci sono persone che con la rottura pensano di guadagnarci».

«Fini non ha nessuna intenzione di sfasciare tutto dopo questa grande esperienza»

21 aprile 2010:

«Sono smentiti coloro che in questi giorni e settimane hanno ipotizzato scenari di rottura, divisioni o alternativi al centrodestra»

23 aprile 2010:

28 luglio 2010:

«È arrivato il momento di dire la verità sulle intenzioni di Gianfranco Fini: non vuole formare un terzo polo perché il solo posto dove vuole stare è nel Pdl da presidente della Camera»

31 luglio 2010: 

3 agosto 2010:

Costituiti i gruppi autonomi di Futuro e Libertà a Camera e Senato

7 ottobre 2010:

«I terzi poli e altre soluzioni non ci interessano»

8 ottobre 2010:

«Per me il candidato del centrodestra, nel centrodestra e per il centrodestra per il 2013 è Gianfranco Fini. Altre ipotesi alternative e strampalate sono soltanto frutto di scemenza mentale»

7 novembre 2010:

Rimette il suo mandato da ministro delle Politiche comunitarie dal palco di Bastia Umbra, dove si commuove (come già Luca Barbareschi, poi uscito dal partito)

15 novembre 2010:

Conferma, in una lettera, le sue dimissioni da ministro

20 novembre 2010:

«Non vogliamo fare un terzo polo, ma il vero centrodestra»

15 dicembre 2010:

Nasce il terzo polo, e Fini ne è parte integrante con Casini e Rutelli

16 dicembre 2010:

«Però per me, lo dico con serenità, non fu poi così faticoso rinunciare all’incarico, pur prestigioso, di ministro. […] E sa perché? Primo: perché io credo sia all’amicizia che alla lealtà. E con Gianfranco sono entrati in ballo entrambi questi valori. Secondo: perché poi non mi immagino la politica come una misera questione di poltrone».

27 gennaio 2011:

Franco Frattini, ministro degli Esteri, riferisce a Montecitorio sulla vicenda della casa di Montecarlo.

«Oggi il Parlamento ha vissuto una delle pagine più tristi e indecorose della sua storia, a causa del comportamento di un uomo delle istituzioni come il ministro degli Esteri»

1 marzo 2011:

«Il progetto di Futuro e Libertà non fallirà»

«Dobbiamo costruire il centrodestra alternativo. E per farlo ovviamente dobbiamo essere uniti»

18 maggio 2011:

Lascia la presidenza dell’assemblea nazionale del partito.

In molti sono pronti a scommettere che Andrea Ronchi, protagonista di questa incredibile serie di profezie mai avverate, sia pronto a tornare nel Pdl. 

In ogni caso, nonostante svariati rimpasti, la poltrona di ministro per le Politiche comunitarie è vacante da quando l’ha lasciata.

Fine delle trasmissioni.

Chissà che accadrebbe se dai nostri giornali, telegiornali e dalla rete tutta sparisse il continuo, estenuante, immutato e immutabile dibattito sulla crisi di governo e le elezioni anticipate. Svanirebbero gli ex-fascisti in combutta con gli ex-comunisti, i leghisti celtico-cristiani che si alleano con la vecchia, odiata Dc, Berlusconi che lancia il sasso del voto e poi ritrae la mano, i berlusconiani che diventano finiani e poi ritornano berlusconiani, i dipietristi che diventano berlusconiani. Nessuno sprecherebbe un minuto a immaginare Alfano premier, Tremonti premier, Draghi premier, Montezemolo leader del terzo polo, Carfagna e Prestigiacomo fuori dal Pdl e poi di nuovo nel Pdl, Bersani leader del centrosinistra, Vendola leader del centrosinistra. Nessuno si chiederebbe primarie sì, primarie no. Niente più cene, pranzi, salotti, spifferate, indiscrezioni, «Popolari», «Avanti, Italia», congressi fondativi, presentazioni di libri, manifestazioni di piazza, proclami, appelli, spettri fascisti e fantasmi comunisti, ancora piazze, ancora spettri, minacce, manganelli, fiamme, slogan. E se Bossi un giorno dicesse di avere dubbi sul completamento del federalismo e minacciasse le elezioni, e quello seguente invece non ne avesse e sostenesse che Berlusconi può governare, nessuno se ne accorgerebbe.

Non sarebbe una così grave perdita per l’informazione. E noi tutti, politici, giornalisti e semplici cittadini, potremmo riversare tutte le nostre forze su programmi, inchieste, fatti. Ma, naturalmente, niente di tutto questo accadrà. Niente «fine delle trasmissioni». Resteranno il Paese spaesato, la politica senza la politica, la rappresentanza senza rappresentanza. I giornalisti, me compreso, continueranno a inseguire l’ultimo capriccio del portavoce, del presenzialista o del “falco” di turno, registrare le smentite, i distinguo, le ricucite delle “colombe” e dei “mediatori” della domenica. O peggio, inventarsi tutto di sana pianta. Per riempire le pagine. Spostare in avanti di una puntata la telenovela, lasciando sempre quella curiosità morbosa di sapere se l’ex moglie, dopo averlo tradito ripetutamente, tornerà con l’ex marito. Fino alla prossima separazione, fino al prossimo bacio, ai prossimi titoli di coda. Così che i riflettori non si distolgano dal set, non illuminino la realtà se non di rado, occasionalmente. Per il resto meglio calare il sipario. Prima che qualcuno, accorgendosi della differenza, smetta di consumare. E cestini, una volta per tutte, quel logoro, insensato copione.

L’ombra lunga del 2010.

Abbiamo passato il 2010 a fare i ragionieri. Ad annotare gli umori e le gesta degli Scilipoti, dei Razzi, dei Calearo, dei Moffa. Tenere il pallottoliere: quattro di qua, uno di là, la maggioranza tiene, la maggioranza va. A contare le giravolte di Casini, le piroette di Bersani, gli affondi e le retromarce di Fini.

Abbiamo imputato il tutto alla solita logica del trasformismo politico, alla paura degli onorevoli di perdere la poltrona mista alla bramosia di vedere oscene promesse mutarsi in realtà, che importa se tramite la compravendita. Il tutto secondo l’italianissimo imperativo del “tengo famiglia“. Difficile non portare a casa la sufficienza, se il compitino è indignarsi per le voci di compensi milionari, debiti ripianati e chi più ne ha ne metta in cambio di un voto o di un’adesione al “gruppo di responsabilità” di turno. Dove puntualmente ognuno fa quel che gli pare, ma almeno non lo fa contro il governo.

Ma forse abbiamo sottovalutato la portata complessiva dell’operazione. Persi dietro all’ennesima fotocopia sbiadita di Capezzone e Santanchè, non ci siamo chiesti abbastanza: ma tutto questo, che significa? In altre parole, l’abbiamo messa sul personale. Questo senatore ha cambiato casacca per quel motivo, questo deputato per quell’altro. Ma forse questi gruppi di voltagabbana, e le loro ragioni, messi tutti insieme rivelano un disagio più profondo, una incapacità più profonda di quella del singolo politico di mantenere fede al proprio mandato elettorale o agli ideali del proprio partito.

Proviamo dunque ad allargare lo sguardo. L’Italia dei Valori cade a pezzi, tra la gestione dittatoriale di Di Pietro, i richiami a una questione morale di De Magistris, Sonia Alfano e Giulio Cavalli, gli atti d’accusa di Flores D’Arcais e le arcinote fuoriuscite che hanno salvato il governo Berlusconi. Il Pd non se la passa meglio. Con i veltroniani pronti a fare una corrente in aperto dissidio con il segretario, i popolari di Fioroni sul piede di guerra, i prodiani che hanno dichiarato di valutare il loro appoggio al partito volta per volta, i rottamatori che vorrebbero decapitare la dirigenza e ricostruirla. Per non parlare delle alleanze, che dovrebbero andare dagli ex comunisti agli ex fascisti, realizzando quello che Giorgio Bocca riteneva impossibile da «far ingoiare» ai continuatori dell’antifascismo soltanto all’alba della seconda Repubblica.

E se l’arco parlamentare di centrosinistra piange, quello di centrodestra non ride. Il Pdl ha perso gran parte della sua sterminata maggioranza a causa della conclamata incapacità della propria dirigenza di sembrare una dirigenza e non un picchiatore prendiordini da Berlusconi. Al punto che, dopo una vita di propaganda di se stesso come vincitore senza se e senza ma, perfino il Cavaliere si è visto costretto ad ammettere che quel partito non è stata poi una grande idea, e che per questo se ne deve cambiare il nome. Come se a quel modo scomparissero la vocazione autoritaria del suo padre-padrone e la quantità indecente di scandali che lo circonda.

Il terzo polo, poi, è diviso su tutto ancora prima di nascere, con l’Udc che sotto le vesti della «responsabilità nazionale» ordisce trame da prima Repubblica, Futuro e Libertà che ha più voci che teste e il fantasma di Montezemolo che per buona parte dell’anno si è divertito a terrorizzare gli astanti. Un quadro incomprensibile, in cui la paradossale conclusione è che l’unico fattore di stabilità è stato rappresentato dalla Lega, vero e proprio ago della bilancia.

Si potrebbe continuare, ma il concetto è chiaro: l’intero sistema politico, così come lo conosciamo, è in disfacimento. E non se ne capisce la ragione. O meglio, l’unica ragione che si intravede è l’incapacità della classe politica nel suo insieme di anteporre l’interesse del Paese al suo proprio. A destra come a sinistra, ciò che abbiamo vissuto quest’anno è stato niente più e niente meno un perpetuo regolamento di conti ad personam. Mancano i disegni politici, mancano le prospettive, i sogni e l’intelligenza per imbastirne. Il che probabilmente rivela una deficienza più profonda della politica: l’incapacità di fare il proprio mestiere. E cioè quello di svolgere il programma sottoscritto con gli elettori, nel rispetto delle regole del gioco democratico. Un compito già di per sé difficile, ma reso immane dal mostro di conflitti istituzionali rappresentato da Berlusconi.

Mancando così di ogni logica e progettualità, è difficile se non impossibile prevedere che cosa ci riserverà il 2011, quale conformazione politica avrà il Paese nel futuro prossimo. Così come è altrettanto difficile, e questo è ben più grave, immaginare quale conformazione politica sarebbe maggiormente desiderabile. Meglio un sistema proporzionale o maggioritario? Meglio il bipolarismo o un quadro più frammentato? Meglio una maggioranza capace di dialogare con l’opposizione o una che tiri diritta per la sua strada? Tutte queste domande sono divenute vuote, prive di significato, di fronte a una politica incapace di mantenere fede alle più elementari delle promesse, non ultima quella di rispettare le regole del gioco. Che sono state costantemente sbeffeggiate, insultate, vilipese proprio da chi dovrebbe rappresentarle.

Sono stati dodici mesi terribili, dunque, soprattutto perché, contrariamente a quanto sostiene il calendario, non sono finiti. E l’ombra che allungano sui prossimi è talmente fitta che le nostre stesse capacità analitiche ne escono ridotte, così come le nostre chance di ottenere la sufficienza come osservatori, quando rapportati a questi parametri. Siamo al punto in cui è auspicabile adoperarci tutti per immaginare un futuro migliore. Pensare di realizzarlo, quando manchi un progetto, è pura utopia.