Critica della critica alla democrazia digitale

Temo la critica alla democrazia digitale stia prendendo una piega sbagliata. Mentre sul Giornale si legge la solita generalizzazione ingiustificata («Il web imbroglia»), scrive Giovanni Valentini su Repubblica: «La vulnerabilità del sistema non è soltanto un dato tecnologico. È più propriamente un fattore genetico di quella che un autorevole studioso come Stefano Rodotà, nel suo illuminante libro “Il diritto di avere diritti”, chiama “la dittatura dell’algoritmo”. E non certo per disconoscere la “cittadinanza digitale”, ma anzi per rafforzarla e tutelarla. “Nella società dell’algoritmo – avverte Rodotà – svaniscono garanzie che avrebbero dovuto mettere le persone al riparo dal potere tecnologico”». Perfetto. Il passaggio seguente, tuttavia, mi spaventa: «Da qui, dunque, la necessità di disciplinare la Rete in modo che non diventi il Far West o la giungla della comunicazione globale, a rischio di screditare se stessa, la propria funzione e i propri utenti. È una nuova frontiera della democrazia, da presidiare e difendere in funzione dell´interesse generale, favorendo la sua crescita sociale e civile». Ora, qualcuno mi deve spiegare che c’entrino la quirinarie – che anche io ho criticato nel merito e nel metodo – con «disciplinare la Rete» in modo che «non diventi il Far West» (e basta con ‘sta scemenza) e si «difenda» la democrazia. E che vi sia la necessità di farlo. Questa smania di riportare ogni fallimento della convivenza civile online (ammesso lo sia, e non piuttosto dell’idea di «iperdemocrazia») a una norma è esattamente quello che rallegra i censori di cui l’Italia pullula sotto la pelle. Perché stuzzicarne la fantasia in prima pagina? Non serve, specie se si vuole demolire il mito della democrazia digitale. Per farlo, infatti, meglio «disciplinare» le nostre idee su di essa, semmai, non «la Rete» su cui dovrebbe instaurarsi. Che ha le qualità e i difetti di chi la abita: sono le persone a imbrogliare, non «il web». Regolare quest’ultimo, lo dimostra la storia, non rende i dibattiti più educati (ammesso sia un obiettivo: anche i troll hanno diritto di cittadinanza e un ruolo ben preciso) o produttivi. Semplicemente, li annienta. Non passi l’idea, insomma, che se cambiassimo «la Rete» potremmo usarla davvero come luogo di deliberazione democratica. Finiremmo per essere meno liberi, e la democrazia resterebbe comunque un’altra cosa.

Niente carcere per Sallusti

Non sono mai d’accordo con Alessandro Sallusti. Nel merito, ma soprattutto nel metodo. E non è difficile immaginare (me lo conferma un amico avvocato) che al Giornale abbiano un po’ esagerato i termini della questione (c’è sempre la possibilità di «misure alternative», dice), e tirato il titolo: del resto, lo fanno con cadenza quotidiana. Ma trovo comunque sia una barbarie nordcoreana sbattere in carcere per 14 mesi un giornalista, a maggior ragione per un pezzo che non ha scritto. E trovo sia una barbarie indegna di una democrazia avanzata – così le chiamano – anche soltanto che se ne presenti il rischio, o si sia costretti a discuterne. Non è questione di confondere libertà e licenza: è questione che – pur con i dovuti contrappesi – i reati di opinione devono essere depenalizzati, come nel resto del mondo civile. Basta guardare la mappa del Committee to Protect Journalists per il 2011, per convincersene: tra i Paesi dove i giornalisti vengono incarcerati (sono stati 179 in tutto, di cui 42 in Iran e 27 in Cina) non ce n’è nessuno da prendere a modello. Se Sallusti ha diffamato, o se ha omesso di evitare una o più diffamazioni sul suo giornale, paghi, e paghi caro se necessario. Ma la sanzione non può essere la galera. E non può esserlo perché il principio si presta troppo facilmente all’abuso – un abuso che ha conseguenze collettive ben più nefaste di quelle derivanti dall’avere, nel novero delle cose possibili, qualche giornalista in malafede che può permettersi di diffamare perché ha le spalle coperte. Lo pensavo durante il sacro furore contro il carcere per i giornalisti nelle bozze della famigerata ‘legge bavaglio’ e, pur se sono questioni diverse, lo penso oggi. Questo Paese già arranca nelle classifiche sulla libertà di espressione e di stampa. Evitiamo di spingerlo ancora più a fondo nel nome della difesa di un’idea di libertà che finisce per svuotare le democrazie di uno dei loro pilastri: la libertà, che ci si chiami Sallusti o meno, dal terrore di finire dietro le sbarre per ciò che si scrive.

Se Grillo ricorda Sallusti.

Scrive Beppe Grillo sul suo blog:

Varese un negoziante ha avuto un’idea straordinaria. Ha appeso un cartello fuori dal suo negozio con l’avviso “Vietato l’ingresso ai politici”. Questa azione va replicata nei negozi di tutta Italia e non solo, anche nei taxi, nei cinema, in qualunque esercizio pubblico. Chi ha cancellato il futuro di almeno due generazioni di giovani e costretto i vecchi a lavorare fino alla morte non va dimenticato, non va lasciato libero di fare altri danni. Il secondo Paese europeo per emigrazione dopo la Romania è l’Italia. Laureati, diplomati, professionisti, quasi tutti giovani hanno lasciato la nostra terra. In compenso abbiamo i parlamentari più vecchi d’Europa. Nel blog e in una pagina Facebook “Vietato l’ingresso ai politici” ho pubblicato una locandina da appendere ovunque vogliate. La faccia è quella tipica del politico italiano, una faccia da culo. Lo riconoscete anche da lontano.

Avete letto bene: il politico, chiunque egli sia, efficiente o inefficiente, ladro, corrotto oppure integerrimo, «non va lasciato libero di fare altri danni». Come se i danni (pur innegabili) della politica si fossero prodotti lasciando liberamente usufruire ai politici – come a qualunque altro cittadino – di cinema, taxi e di tutti gli altri servizi ed esercizi pubblici. E come se si potesse in qualunque modo aiutare il ricambio della classe dirigente, aumentare la cultura politica dei cittadini, promuovere consapevolezza nella società civile a suon di divieti con un culo stampato al posto del viso.

Io non so se Beppe Grillo si renda conto o meno delle conseguenze che hanno iniziative come queste da tutti i punti di vista appena elencati. Qualche giornalista o blogger servo del regime un po’ malizioso potrebbe farsi venire il cattivo pensiero che sparate come questa servano a cullare un nuovo elettorato di riferimento, quello dei commercianti e degli artigiani, in cui il Movimento 5 Stelle è dato in forte crescita (dallo 0 al 7% circa). Qualcun altro, invece, potrebbe semplicemente limitarsi a ricordare che non è il primo caso in cui la difesa della libertà di espressione di cui Grillo si erge a paladino si tramuta in difesa della propria libertà di reprimere la libertà altrui (si veda quello recente, segnalato da Gilioli, del dissidente del Movimento sul finanziamento pubblico ai giornali, di cui Grillo ventila l’epurazione – proprio lui, che aveva gridato peste e corna contro il Pd quando non ne accettò la candidatura a segretario ‘dissidente’).

Io mi limiterei a sottolineare che tra la bassezza comunicativa e la nocività sociale dell’iniziativa di Grillo e quelle della prima pagina del Giornale di oggi («E’ stata la culona») non vedo alcuna differenza. Nell’uno e nell’altro caso, lo stile è da Ventennio. Ed è il caso che i supporter delle opposte (ma sotto questo aspetto simili) fazioni se ne rendano conto.

Brunetta, i nove giorni e il Nobel per l’economia.

Il Popolo Viola, condividendo sulla sua pagina Facebook la prima pagina del Giornale del 10 agosto 2011, mi ha ricordato che il ministro Renato Brunetta ha ancora nove giorni di tempo per dimostrare le sue doti divinatorie (da premio Nobel per l’economia, eh) sullo stato di salute del Paese:

Coraggio, ministro: ha ancora circa 216 ore. E, per inciso: alla domanda sul «come» mettere tutto «a posto» («Affidandosi alla Banca centrale europea, alla Merkel e Sarkozy?»), aveva risposto: «Balle della sinistra».

Ricorda?

Sorvegliare e punire.

Prima di cantare vittoria per un dietrofront sull’ammazzablog ancora tutto da verificare, considerare i seguenti fattori:

1. Maurizio Paniz, Pdl:

I blog sono diventati un fenomeno di vita sociale rilevante e vanno sanzionati. Non può esistere franchigia, né per avvocati, né per giornalisti, né per operatori di un blog (La Repubblica, p.2),

2. Enrico Costa, Pdl, nuovo relatore del ddl intercettazioni:

[La modifica] non convince tutti, neanche nel mio partito: tanti sostengono che se si sentono diffamati su Internet devono poter avere il diritto di rettificare (La Stampa, p.2).

3. Alberto Di Majo, sul Tempo:

se l’«enciclopedia» si trasforma pure in partito, allora ridateci la Treccani o la Britannica.

4. Massimiliano Parente, sul Giornale:

Wikipedia Italia chiude? E chisse­nefrega, anzi io festeggio, non ne potevo più. Tanto per cominciare perché a me già solo il principio di Wikipedia fa schifo

[…]

Il principio base è la deresponsabilizzazione assoluta, dove viene scambiato per «censura» l’intento di impedire una dittatura dell’anonimato, il contrario della libertà di stampa e di espressione.

[…]

internet funziona così: puoi scrivere tutto su tutto, non devi verificare nulla, non devi rispondere di nulla, non devi firmarti, altrimenti è censura. Inoltre, per paradosso, la fonte non controllata e non controllabile, anziché screditarsi da sola, pretende di essere autorevole. Eppure le informazioni anonime fanno pensare più ai regimi totalitari che alle democrazie

[…]

Insomma, Wikipedia chiude, alla fine è una bella notizia, alla fine purtroppo sarà solo una finta, ma io intanto mi godo l’attimo fuggente e stappo uno spumantino e faccio cin cin con la mia Treccani.

Questo è l’atteggiamento nei confronti della rete di una certa destra italiana.  E non sparisce certo con un accordo raggiunto in extremis su un singolo comma.