Su ‘Sottomissione’ di Houellebecq

Chiudo l’ultima pagina di ‘Sottomissione‘ di Houellebecq – se fossi convinto del suo essere una distopia, aggiungerei: che come ogni distopia finisce con un inizio, quello della nuova vita del protagonista una volta che abbia accettato i dettami dell’antiutopia di turno – e il primo pensiero è: come abbiamo fatto, come civiltà, a finire per considerare un libro simile “controverso”, “scandaloso”, al punto che l’autore sia costretto a vivere sotto scorta, cancellare il proprio tour promozionale, vedere rimosse interviste (come da Canal Plus, poi trasmessa) ed essere accusato di islamofobia? Un libro che, al contrario, non ha alcun accenno d’odio, non compie la pretestuosa e pericolosa equiparazione tra l’Islam (cos’è poi, “l’Islam”) e il fondamentalismo di ISIS e Al Qaeda che si può peraltro beatamente sorseggiare, goccia a goccia, sulle pagine e nei discorsi delle destre di tutto il cosiddette “Occidente” (senza fortunatamente riparare nello stucchevole opposto, il multiculturalismo buonista di buona parte del progressismo contemporaneo). Un libro che, inoltre, non deride né offende il Profeta: il che non fa che rendere la coincidenza con l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo e la sua ultima copertina dedicata a fare satira sullo stesso Houellebecq ancora più surreale, grottesca, profondamente e irrimediabilmente errata.

Ma è una ipotesi, quella del legame tra l’opera dello scrittore francese, quella dei vignettisti di Charb e la violenza, che si può definitivamente contestare solo se la censura perde: solo, cioè, se è possibile a chiunque accedere a quelle opere – preventivamente, nel caso di Houellebecq – incriminate. Sopra il tappeto, non sotto: è così che la polvere della disinformazione e dello scontro artefatto di civiltà (cercato non a caso a ogni costo proprio dai fondamentalisti) può essere spazzata via. Se non avessi letto ‘Sottomissione’, se non avessi acquistato Charlie Hebdo con il Fatto Quotidiano e non l’avessi sfogliato, pesato, digerito per quanto possibile a chi come me non mastica perfettamente né il francese né la storia della cultura islamica, probabilmente ora sarei in compagnia dei tanti che dicono alla libertà di espressione: “sì, ma”. Non c’è nessun “ma”, e lo scrive meravigliosamente, su Repubblica del 17 gennaio, Salman Rushdie: “Adesso”, scrive l’autore perseguitato da una fatwa da decenni per i suoi ‘Versetti Satanici’, “assistiamo all’ascesa di quello che ho definito il gruppo del ‘ma’. Sono stufo di questo dannato gruppo del ‘ma’ e quando sento qualcuno dire «sì, credo nella libertà di parola, ma…», smetto di ascoltare”. Perché? Semplice: “se si limita la libertà di parola non è più libertà di parola”.

Per questo gli anglosassoni dicono di combattere l’hate speech con more speech: a guardarlo bene, negli occhi, l’odio evapora. E, tutto sommato, si scopre che non era nemmeno così odio. Nel caso di Houellebecq non lo è affatto, l’ho detto; in quello di Charlie Hebdo nemmeno: solo la voglia e il desiderio e il diritto di ribadire che la libertà di parola o è assoluta o non è, e che è proprio questa sua assolutezza a distinguerci dai paesi in cui branchi vergognosi di uomini e donne che si dicono fedeli pensano basti una vignetta a mettere a repentaglio la credibilità del loro dio, al punto di scendere in piazza e – come nel 2006, come nel 2012 – assaltare le ambasciate, scagliare pietre, condannare la violenza della satira con una ipocrita violenza. Il tutto coi morti di Parigi ancora caldi.

La rabbia, in questi giorni, è tanta da offuscare a volte il giudizio. Ma in Houellebecq non c’è nulla di rabbioso, nessuna rivalsa per un sistema – il nostro – che viene descritto come al tramonto per ragioni fondamentali, filosofiche (non a caso forse il protagonista è un umanista, il massimo esperto di Huysmans); non per incidenti della storia ma per il suo dipanarsi; non per qualche scelta geopolitica errata, ma perché in qualche modo è lo sviluppo stesso del nostro pensare che ci ha portato all’impasse strategica, culturale e sociale odierna, che ci lascia privi di risposte – ma ignoranti e boriosi – di fronte ai nuovi assetti di potere globali, in cui la religione dopo secoli di arretramenti sembra essere tornata protagonista; come se l’Illuminismo, divenuto relativismo, divenuto capitalismo finanziario col buco intorno, avesse finito per inaridirci e terrorizzarci al punto di chiedere nuovi limiti per la ragione, nuovi vincoli morali oltre che meramente teoretici: pratici, dunque. Una sottomissione, appunto, di cui la parola “Islam” non è che un sinonimo. Gli editor di Bompiani hanno azzeccato quale passaggio riportare del volume, in copertina. “È la sottomissione. L’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta”.

È il più significativo, decisamente. A mio avviso, nientemeno che la chiave di volta che regge l’intero impianto del romanzo, lo scivolamento della esausta democrazia francese nelle mani del leader “moderato” di un partito islamista, Ben Abbes, dopo che quest’ultimo si è giocato l’ascesa al potere con l’estrema destra di Marine Le Pen, non con socialisti e UMP – fuori dai giochi per la prima volta al primo turno. La presa del potere avviene secondo dinamiche familiari: con le complicità e i silenzi dei media su determinati, e determinanti, fatti; grazie all’incapacità e all’insipienza dei leader dei due partiti che storicamente se lo erano spartito nel paese fino ad allora; e giocando con furbizia ora alla moderazione e ora al dialogo con l’estremismo identitario cristiano e musulmano.

Ma il punto di Houellebecq, mi sembra di capire dopo una prima lettura, è che la politica – meglio, la mancanza di politica – da sola non basta a giustificare il realizzarsi di quella che tanto somiglia a una colonizzazione culturale, all’Eurabia di Oriana Fallaci riproposta, stancamente, tre lustri dopo la formulazione. No: il punto, di nuovo, è concettuale; ed è il rapporto tra felicità e libertà, la loro opposizione che risale nella sua formulazione credo più pura al ‘Grande inquisitore’ di Dostoevskij. All’attimo della storia del pensiero, cioè, che raccoglie l’idea – potentissima e atroce, al punto di essere incarnata da un anticristo – per cui dio abbia sbagliato a darci l’illusione di una libertà talmente elementare e fondativa da potersi rivolgere anche contro lui stesso, per rifiutarlo: gli uomini non sono in grado di sopportarla; piuttosto, finiscono per preferirle, per sopravvivere al dolore e alla sua costante insensatezza, una più agiata, comoda felicità – anche se ciò significa, appunto, il più esatto sinonimo di “sottomissione”. “Nulla”, dice l’inquisitore, “mai è stato per l’uomo e la società umana più intollerabile della libertà”. Tanto che “questi uomini sono più che mai convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi”. Si tratta, precisa Ivan ad Aljòsa, di “avere infine soppresso la libertà e di averlo fatto per rendere felici gli uomini”. È questo forse il senso profondo del motto dell’orwelliano IngSoc in ‘1984’, il celebre “la libertà è schiavitù” che costituisce il filo rosso tra Dostoevskij, Orwell e Houellebecq messo già chiaramente in risalto, per altri versi, da Emanuel Carrère sul Corriere della sera del 6 gennaio.

Nelle pagine di Houellebecq questo recedere delle libertà che in “Occidente” abbiamo lottato per considerare acquisite, questa altrimenti inspiegabile accettazione, avviene continuamente nel nome proprio delle comodità, del suo farsi promessa di felicità addirittura eterna. Un esempio è il modo in cui il partito del neopresidente Ben Abbes riesce a convincere gli alleati, i vecchi partiti, a impostare una riforma radicale dell’educazione in senso islamista. Come si convincono i docenti, gli intellettuali di un paese tradizionalmente laico, anzi al fronte del laicismo, come la Francia a sottomettersi all’autorità del Profeta e del Corano? Semplice, si usano i dollari della petromonarchia dell’Arabia Saudita per moltiplicare loro gli stipendi. La considerazione di fondo di Houellebecq, quella che regge la plausibilità dell’impianto narrativo in senso fantapolitico, è che le società – tutte quelle dotate di reale potere, anche le nostre – sono ancora profondamente patriarcali, vivono e muoiono dei desideri dei maschi che le compongono. E allora quale incentivo alla conversione è migliore di promettere e realizzare una fine delle conquiste di emancipazione della donna, che così può tornare a essere una docile, affettuosa guardiana domestica per uomini in carriera che quegli stessi maschi hanno il potere e il diritto di comandare, limitare, a loro volta sottomettere? Se l’uomo è nulla di fronte a Dio, è Dio di fronte alla donna, dice – pur con altre parole – in un passaggio Houellebecq, e questa divinità di mezzo si traduce in privilegi concretissimi: la poligamia, per esempio, il potere accompagnarsi a giovanissime schiave che peraltro non hanno nemmeno più l’odioso, per alcuni, potere di rendersi attraenti ad altri uomini, altri rivali, indossando minigonne e mostrando i loro bellissimi – e colpevolissimi – volti.

La nuova società sarà meno libera, perché impone il costume e le leggi di una religione sopra quelle della ragione, ma per chi ha potere è più comoda. Non a caso il pensiero che emana dal nuovo potere è intriso di elitarismo, di dettami aristocratici che oggi sembrano indicibili, e invece – sembra suggerire lo scrittore – serpeggiano eccome nelle nostre società, in tutte le nostre società. I pochi migliori, gli aristoi, hanno il potere ed è giusto ne detengano sempre di più, dice Rediger nel romanzo, mentre i molti è altrettanto giusto abbiano di che vivere, ma pensino a realizzarsi in modi non monetari, non materialisti: nella famiglia, nella fede; nel lavoro modesto, non intellettuale; in una dimensione diversa, più umile ma – qui sta la differenza – non inferiore. A questo modo il protagonista racconta uno degli articoli del futuro ministro degli Esteri della Francia islamista, ed ex “identitario”: “Rediger si dichiarava nettamente in favore di una suddivisione nient’affatto egualitaria delle ricchezze. Se la povertà propriamente detta andava esclusa da una società musulmana autentica (il sostegno con l’elemosina costituendo addirittura uno dei cinque pilastri dell’islam), quest’ultima doveva comunque mantenere un notevole scarto tra la grande massa della popolazione, vivente in una miseria decorosa, e una ridottissima minoranza di individui smodatamente ricchi, tanto da potersi abbandonare a spese esagerate e folli che assicurassero la sopravvivenza del lusso e delle arti”; altrimenti detto, da potersi abbandonare a spese per mantenere se stessi. Di nuovo, piuttosto comodo. E non solo per le élites: se la donna deve accudire e servire l’uomo e la famiglia, i posti di lavoro che si liberano per tutti gli uomini potrebbero essere tali da sconfiggere la disoccupazione, fantastica Houellebecq. Di nuovo, la cessione di un diritto fondamentale nel nome di una comodità, di un opportunismo giustificato, e quindi redento, dalla parola divina.

In questa purezza del ribaltamento dei valori consolidati, ‘Sottomissione’ è un testo antiutopico. E, come anticipato, finisce come da tradizione: con l’accettazione del nuovo ordine da parte del protagonista; e con una sua riforma esistenziale integrale, altrettanto pura e assoluta. Accompagnata da una serie di condizionali che anticipano i vantaggi pratici, di nuovo, della conversione: ma pura, perché ideologicamente incorrotta. Eppure qualcosa manca, tra le pagine. La distopia sembra senza distopia, un’idea senza reale svolgimento: come si organizza davvero questo nuovo Stato? Basta la scommessa del Grande Inquisitore a giustificarne la legittimità politica? Basta la complicità dei giornali e dei ceti intellettuali? Dov’è il popolo che è sceso a milioni in piazza dopo il massacro a Charlie Hebdo? Tutti e soli ipocriti incapaci di combattere per difendere il nucleo centrale del proprio vivere comune, le libertà e i diritti civili guadagnati peraltro proprio a partire dalla Rivoluzione del 1789?

Soprattutto, e basterebbe questo a chiudere le polemiche sulla presunta islamofobia del testo, ‘Sottomissione’ non sembra formulare una esplicita condanna di quella che dovrebbe porsi come antiutopia, e che solamente come tale potrebbe motivare la rabbia di chi invece vi vede l’opposto. Ecco, lo stesso Houellebecq sembra talmente immerso nel cinismo, nella disperazione, nella disintegrazione da fine impero che abita, e che noi tutti abitiamo nel cosiddetto ‘Occidente’, da valutare seriamente se l’alternativa non sia tutto sommato equivalente o quasi; chissà, per certi versi forse perfino positiva. Carrère, a cui sono arrivato solo dopo la lettura del romanzo e la stesura di una prima bozza di queste considerazioni, sembra concordare: “«Non avrei avuto niente da rimpiangere»: è l’ultima frase del libro (‘Sottomissione’, ndr), e la trovo altrettanto memorabile dell’ultima frase di 1984 : «Amava il Grande Fratello». Invece il senso è totalmente diverso: Winston Smith si è arreso, ma Orwell continua a resistere per lui. La resistenza non interessa a Houellebecq. Egli ritiene che l’Occidente sia spacciato, talmente spacciato che non c’è più niente da rimpiangere. Che la libertà, l’autonomia, l’individualismo democratico ci abbiano immersi in uno sconforto assoluto”. Da cui, appunto, il desiderio di liberarsi delle nostre libertà descritto da Dostoeveskij, e che nei fatti non è altro che un desiderio di schiavitù volontaria, di “sottomissione” che diventa assolutamente, perfettamente sinonimo di felicità. O almeno, come detto, della sua eterna promessa.

Ho letto che per Houellebecq il passaggio centrale è la mancata conversione del protagonista al cattolicesimo di fronte alla Vergine nera di Rocamadour: “non sono riuscito a scriverlo”, ha detto a Stefano Montefiori del Corriere, “l’avanzata islamica mi è parsa più credibile”. Non ho ancora potuto leggere tutti gli ulteriori commenti dell’autore in merito, ma le opere dovrebbero poter parlare da sole, senza interpreti e – paradossalmente – senza nemmeno autori. E quello che dice ‘Sottomissione’, quello che lascia una volta terminata la lettura, è che siamo in tanti – anche in “Occidente” – a scegliere la felicità al posto della libertà: il modo in cui il dibattito post-Charlie Hebdo ha virato in poche ore dalla marcia repubblicana di Parigi in difesa della libera espressione a un profluvio di norme che, nel nome della sicurezza e dunque della felicità, conferiscono “poteri eccezionali” per meglio sorvegliare e reprimere alle agenzie governative e di intelligence di tutto il mondo, non fa che testimoniarlo. Per questo ‘Sottomissione’ sembra una critica del mondo attuale più che una profezia di un mondo futuro; una critica rivolta principalmente a uno specchio, poi: non un dito puntato contro una religione e una intera cultura. Forse, sembra suggerire Houellebecq, l’islamizzazione non è che un altro nome del nostro desiderio più recondito: obbedire, e obbedire di nuovo a un dio, così da essere finalmente liberi dalla libertà, e dal suo insostenibile peso. Il problema non è l’Islam, né moderato né radicale: è il ritorno della religione e dei suoi dogmi sullo scenario della politica e della storia, in un contesto in cui i suoi protagonisti non hanno la più pallida idea di come fronteggiarlo.

Intervistare Assange

Ho intervistato Julian Assange, oggi. Al telefono, via Skype, dopo aver ricaricato un credito che credevo di avere già e invece non c’era. Ha risposto lui, quando ho chiamato. Non è andata come ad altri, che hanno dovuto passare per un intermediario. Ha risposto, con una voce bassa, tremula, rotta da colpi di tosse e con la mente palesemente impegnata su altro, come con me stesse ripetendo delle formule mandate a memoria, automatizzate, che non impegnano più la sfera cosciente. Aspettavo di intervistarlo da anni, da quando nel 2010 volevo farne il corpo di un libro su di lui. Ma non è stato affatto come l’avevo immaginato. Forse non lo è mai, con gli eventi degni di menzione della propria vita. Pensavo sarei stato emozionato, e invece ero assorto, annoiato quasi. Pensavo a un timore reverenziale, e invece non ne ho avuto. Ho provato molta compassione, invece, e questo non l’avevo messo in conto. Mi ha smorzato le domande e affinato lentamente l’udito, cercando di andare sempre più a fondo non tanto nelle parole quanto nel tono di quelle parole, perché lì – se mai ce n’è stata una – c’era la verità della condizione di Julian. Del suo pensiero, che si è radicalizzato, al punto da fargli sfiorare l’idea che Google sia un sistema totalitario di qualche sorta – «post-moderno», dice, mancando spettacolarmente di articolazione per un pensatore rigoroso come lui. Della sua salute, che pare precaria come si legge nelle indiscrezioni. E mi fa rabbia pensare a quanti colleghi lo trattano con sufficienza, come un disturbatore di professione, un parolaio che merita la prigionia che gli è stata imposta – lui, uno spirito così libero – e se soffre, beh, meglio. Occasione per un altro tweet sagace. Per un’altra battuta. Invece Julian pare non stare molto bene, di certo non a livello del morale, e per quanto sia brillante e combattivo come sempre comincia a perdere lucidità, forse, e ad avvitarsi in pensieri ultimi che si allontanano sempre più lentamente ma progressivamente dalla realtà per entrare nella sfera del possibile, dell’ipotetico, del congetturale. Non mi sorprende, dopo questa breve chiacchierata, i suoi testi più recenti siano sempre più speculativi, teorici, astratti. È come se Julian da lì dentro potesse osservare niente altro che la sua mente che osserva il mondo, dopo tutto, e questo da giornalista qual è – profondamente – descrive; non a caso è su quello, a essere ineguagliato tra i pensatori del digitale in relazione al contemporaneo. Acuto, imprevedibile, tecnicissimo, parla e argomenta come un genio ferito, colto nel vivo della sua intimità più bella. Quella che lo portava a volteggiare sul mondo come bucaniere, un pirata – nel senso che l’avventura, non la cronaca, restituisce al termine. Con una leggerezza e una radicalità assolute, di cui tanto c’è bisogno. Con idee chiare e forti, contestabili finalmente come si contesta qualcosa che ha l’aria di poter cambiare il mondo, e farlo davvero, non come quando si dice cambiamo il mondo. Ars Technica ha una splendida definizione per When Google Met WikiLeaks: “an angry, erudite, unredacted letter from the world’s most unusual prisoner”. Ed è esattamente questo: una corrispondenza dal carcere, le parole senza filtro alcuno – la registrazione dell’intervista con Eric Schmidt e Jared Cohen è integrale, respiri compresi – di un prigioniero politico, un intellettuale (sì, intellettuale: perché non si potrebbe dirlo di un hacker?) che guarda il mondo libero e, tutto sommato, lo schifa. E pensa che se è lì dentro non è che lo deve schifare di meno, per uscirne. Lo schifa e basta. Il punto è che vorrebbe ancora cambiarlo, forse, e doverlo fare mostrando continuamente che ciò che combatte è più forte di lui – lo ha rinchiuso, dopotutto – gli pesa terribilmente – lui, così vanitoso. La sua forza è che le idee sono ancora con lui; la sua debolezza che il mondo lo ha abbandonato. E lo ha fatto con un cinismo che disgusta perfino per questo ecosistema gretto e soggiogato dalla viralità nell’intimo più profondo che abitiamo. Julian, che di certo non è stupido, ha forse capito anche questo, e il peso nelle sue parole potrebbe venire anche da lì. Non ricordo poi cosa ci siamo detti, durante la conversazione. Molti passaggi non li ho capiti, si sentiva male e lui aveva la voce talmente bassa che a un certo punto ho cominciato a registrare la conversazione anche col cellulare, oltre che col laptop da cui lo stavo chiamando. C’è molto del suo libro, e c’è la sua curiosità per quando gli ho chiesto se a ritenere, come fa lui, che la censura è «motivo per esultare» perché rivela la debolezza di chi censura (al punto che è costretto ad ascoltare perfino cosa dicono i cittadini!) non si finisce per ritenere che il potere, a livello globale, stia perdendo potere – e questo perché, è la premessa del ragionamento, la censura a livello globale cresce. Non ricordo come ha risposto quando gli ho chiesto se quel potere sfuggito al potere sia finito nelle mani dei cittadini o di un altro e più elusivo potere – i Google del mondo, per esempio. Ricordo però che per un attimo l’ho sentito presente. E mi ha confortato.

Come si parla a un nazista

«Come si parla a un nazista?», si chiede Dimitri Deliolanes in ‘Albadorata‘, il volume da poco pubblicato da Fandango che affronta l’ascesa del movimento neonazista in Grecia. Il quesito del giornalista della emittente pubblica greca ERT è straordinariamente complesso, perché riguarda parlamentari eletti, non – come nel caso che abbiamo testimoniato in questi giorni in Italia – il cadavere di un boia.

Ma le sfumature, pur diverse, restano. «Bisogna essere rispettosi?», chiede ancora. «Ma se si è troppo rispettosi non c’è il rischio di legittimarlo?». Oppure «si potrebbe ignorarlo, fare finta che sia un’anomalia». Finendo però potenzialmente per rafforzare i neonazisti, farli apparire emarginati, ribelli, perseguitati «dal sistema e dai media». Controargomentare? Presta il fianco alle banalizzazioni e agli «attacchi demagogici» in cui sono maestri. Dire apertamente che le tesi di un nazista sono folli? «Il rischio è che appaia come un sognatore perverso, un bandito affascinante, un utopista incompreso».

C’è la legge, replicano alcuni. Dichiarare il neonazismo incompatibile con le istituzioni democratiche, sbattere gli eletti fuori dal Parlamento e in galera – come poi avvenuto In Grecia. O ancora, mettere al bando il solo negazionismo, la giustificazione dell’innocenza storica dell’ideologia nazista: farne un reato perseguibile con il carcere e multe salatissime, come allo studio nel nostro Senato proprio in queste ore. Ma nessuna delle due soluzioni sembra eliminare «i motivi che hanno portato parte dell’elettorato a schierarsi in favore degli estremisti», dice Deliolanes. Il che significa che tantomeno smetterà di pensare da nazista: un pensiero vietato, al contrario, diventa attraente, seduce. Specie quando il sistema stesso che impone il divieto viene percepito come poco o nulla autorevole.

«Il problema», scrive l’autore e io sono perfettamente d’accordo, «è di restituire al sistema democratico la credibilità perduta». L’alternativa al riemergere di tentazioni naziste dalle fogne della storia è solo e unicamente contrapporvi «uno stato di diritto forte, una democrazia forte». «Ma non abbiamo nessun indizio che si stia andando in questa direzione», commenta l’editorialista Stavros Lygeros per la situazione greca, nel libro di Deliolanes. Altrettanto vale per l’Italia. La soluzione non è resuscitare canti partigiani, prendere a calci e pugni un carro funebre, mettere nero su bianco nel codice penale che negare l’Olocausto non è solo inumano e antistorico, ma anche illegale. Magari bastasse così poco. La soluzione è fornire risposte democratiche ai problemi che gli estremisti propongono di risolvere con i semplici, diretti slogan antidemocratici.

Dalla violenza neonazista in Russia contro gli immigrati ai sondaggi che danno al primo posto in Francia il ‘Front National’ di Marine Le Pen, passando per Ungheria e Crozia, «la democrazia non può più essere data per scontata in Europa», come scrive il think tank Demos. Deve, al contrario, dimostrare di essere in grado di affrontare le sfide della contemporaneità. Perché, a mettere in fila le ragioni evidenziate da Deliolanes nell’avanzata di Alba Dorata, si comprende come sia proprio l’inadeguatezza a rispondervi ad aver lasciato campo all’estremismo.

L’incapacità di affrontare i fenomeni migratori, evidenziata tragicamente dalla polemica estenuante e continua tra Europa e istituzioni italiane a Lampedusa – ma decisiva anche in Grecia; il relativo terrore di smarrire una propria identità culturale; la debolezza di culture democratiche che si fanno commissariare politicamente ed economicamente da un’Europa le soluzioni proposte sembrano aggravare, più che risolvere, la crisi finanziaria che sta impoverendo e rendendo più ciniche popolazioni sempre più facili al populismo; un sistema dei media in mano a pochi e che esaspera regolarmente i toni dello scontro sociale, sostituendo alla cronaca resoconti emotivi o scandalistici per fare audience o vendere qualche copia in più; e le connessioni tra forze dell’ordine ed estrema destra e cultura della violenza. Sono questi gli elementi principali che hanno portato Alba Dorata al successo, argomenta Deliolanes.

E gela i polsi pensare a quanto siano attuali nel nostro Paese. A quanto saremmo impreparati e deboli se, domani, invece di un nazista morto dovessimo trovarci a fronteggiare a una serie di nazisti vivi e soprattutto organizzati in un movimento politico capace di sfruttare l’insoddisfazione che percorre l’Italia con argomenti e azioni più o meno velatamente naziste. Come in Grecia, veniamo da una cultura del controllo e dell’autoritarismo, da una democrazia imperfetta, mai compiuta, da un sistema partitico corrotto e in cui gli elettori non si riconoscono – e all’orizzonte non sembrano esserci soluzioni credibili. Restano, certo, le differenze nella struttura economica, oltre al fatto che la storia e la politica restano sempre più complicate e imprevedibili delle analisi che provano a raccontarle. Eppure quella domanda, «come si parla a un nazista?», ha un suono particolarmente sinistro in questi giorni, e in questo tempo. E tapparsi le orecchie, chiudere gli occhi, lavarsi la coscienza con un emendamento o l’indignazione non aiuterà a trovare una risposta.

Open gang

Ci sono diversi aspetti interessanti nella lunga, brillante narrazione di Ben Austen per Wired sul rapporto tra social media e criminalità nelle gang di adolescenti a Chicago. Una storia a base di minorenni che passano le giornate a provocarsi con video hip hop su YouTube, facendo sfoggio delle proprie pistole quando non addirittura del cadavere di un rivale nelle foto su Facebook o deridendo le vittime su Twitter, il tutto minacciando e organizzando rappresaglie e controrappresaglie nei commenti sparpagliati un po’ ovunque sul web.

Naturalmente il passo dalla descrizione al moralismo (Chiudete quelle pagine d’odio! Combattiamo l’hate speech! No all’anarchia sul web! e via dicendo) è brevissimo. Ma sarebbe sbagliato farlo. Il messaggio che più colpisce, credo, di questa storia che inquieta ma al contempo – finalmente – getta uno sguardo concreto sul rapporto tra reale e virtuale, online e offline, nel quotidiano riguarda proprio le due facce della «trasparenza» esibita dai criminali.

Da un lato, i social network facilitano i meccanismi di narcisismo, appartenenza, odio, vendetta che poi portano al moltiplicarsi di faide in cui, molte volte, ci scappa il morto. Dall’altro, tuttavia, questa stessa (inedita) mancanza pressocché totale di considerazione per i rischi derivanti dall’esporre proclami e attività criminali al pubblico dei social network consente alle forze dell’ordine di capirne le dinamiche e in alcuni casi prevenire tragici epiloghi, e a noi che cerchiamo di osservare questi fenomeni di avere un (altrettanto inedito) punto di vista privilegiato – quello dei diretti protagonisti – per darvi senso, e in tempo reale, e moltiplicato per gli occhi e i pensieri di tutti i partecipanti.

Per questo il passaggio decisivo, tra i tanti meritevoli di attenzione, credo sia questo (la traduzione è mia):

«Associamo naturalmente attività criminale e segretezza, trame ordite in retro o vicoli. Oggi, tuttavia, per quanto possa sembrare sciocco nella pratica, le gang di strada hanno adottato un livello di trasparenza che potrebbe impressionare perfino i più ferventi futuristi di Silicon Valley. Ogni giorno su Facebook e Twitter, Instagram e YouTube, si possono trovare ragazzini sfrontati esibire gesti, brandire pistole, mettere in mostra droghe e mucchi di denaro. Se viviamo in un’era di openness, nessun segmento della popolazione è più sorprendentemente open dei membri delle gang del 21esimo secolo, che allo stesso tempo documentano e agitano le strade dei quartieri più duri d’America».

Eliminando l’odio dalla sfera del visibile in rete, in sostanza, si perde la documentazione – e non si sradica il fenomeno alla radice. Forse si rende la vita delle gang un po’ più difficile (forse), ma quanto si perde in termini di comprensione di ciò che emerge delle loro dinamiche, per non parlare di libertà di espressione, continua a sembrarmi infinitamente superiore nonostante i tanti modi – ben descritti da Austen – in cui Facebook, YouTube, Twitter e simili possono catalizzare e rendere istantanea perfino la violenza di strada.

Una violenza che è prodotto di una cultura che precede la rete sociale, come ben sanno gli appassionati di gangsta rap, e che temo non ci sia modo di impedire la rete sociale alimenti. Teniamoci stretti, piuttosto, il valore della descrizione. E cerchiamo di capire se e come possa servire a mutare quella cultura, piuttosto che a mutare «la Rete».

Doppio auto-colpo di Stato

Il Pdl passa mesi a parlare di colpo di Stato. Non succede niente. Poi minaccia (da agosto) dimissioni in massa in caso di decadenza del suo leader. Niente. Poi minaccia (secondo indiscrezioni!) quelle stesse dimissioni in massa, ma a una precisa scadenza (4 ottobre). Solo quando si capisce che il governo rischia (ah, le istituzioni!), arriva la (tanto inutilmente attesa) nota di Napolitano che condanna l’idea eversiva di parlare di un colpo di Stato compiuto attraverso le regole dello Stato di diritto. Il Pdl (nella persona anche dell’ex seconda carica dello Stato) non solo non ritratta, ma anzi rilancia dicendo che il tutto non è «inquietante», ma «realismo».

Quindi, per chiarire: l’idea che in Italia si sia consumato/stia consumando un colpo di Stato è «realistica». Lasciamo perdere cosa ciò potrebbe significare se qualcuno avesse ancora la malaugurata idea di prendere sul serio le parole pronunciate da questi signori. Concentriamoci invece su chi sta gridando al colpo di Stato.

E cioè un partito che, mentre grida, siede al governo accanto ai (collaboratori dei) golpisti (si tratta dunque di un auto-colpo di Stato?). Un partito che dispone attualmente del ministero dell’Interno (sta dunque rovesciando il suo stesso regime?). Un partito che chiama colpo di Stato l’applicazione di una legge (la Severino) che ha votato e approvato meno di un anno fa (doppio auto-colpo di Stato?). Un partito che propone, come soluzione per risanare la democrazia, la sostituzione del consenso plebiscitario all’applicazione della legge (cioè l’essenza del suo contrario, l’autoritarismo) e chiama l’idea una «dimostrazione di amore per la democrazia parlamentare» (Brunetta). Un partito che quando erano altri a parlare di colpo di Stato (Di Pietro, per esempio) sfoderava il linguaggio della Grande Moderazione Istituzionale, del Peso delle Parole, del Vergogna-Irresponsabile (alcune eversioni sono meno eversioni di altre).

Se solo Curzio Malaparte fosse ancora in vita, avrebbe di che aggiornare il suo famoso manuale, ‘Tecnica del colpo di Stato’. In cui si legge, per esempio, che «quello che in altri tempi era un problema di polizia è oggi divenuto un problema di tecnica». Fortuna che è lecito dubitare fortemente che Schifani, Santanchè e compagni ne abbiano il pur minimo barlume.