Qui non si tratta di chiederci se le facoltà visive abbiano consentito o meno a Diliberto di scorgere la maglietta che si augurava il ministro Fornero al cimitero. O interrogarci sul significato di un Monti che esce da una bara con scritto articolo 18, o di un Di Pietro che sceglie un hashtag gravido di significati come #18vietnam per una discussione sul’argomento via Twitter. E nemmeno di comprendere le decine di commenti che, con il consigliere torinese Musy appena sparato, si auguravano fosse un agguato politico, il ritorno di una giustizia fatta per le strade a colpi di P38.
Qui, a mio avviso, si tratta di capire se c’è una parte della società civile, e dunque della politica, che ha deciso coscientemente di adottare come metodo la legge del taglione. Che è quanto lo stesso Di Pietro implicitamente afferma rispondendo a una mia domanda:
@fabiochiusi E’ un linguaggio adeguato alla violenza che si consuma contro lavoratori, precari e pensionati. Questa è #resistenzademocratica
— Antonio Di Pietro (@Idvstaff) March 22, 2012
Il concetto è chiaro: il governo dei tecnocrati, con la connivenza degli inciucisti, usa «violenza» contro «lavoratori, precari e pensionati». Quindi – e qui sta l’applicazione dell’occhio per occhio, dente per dente – è lecito usare violenza (anche se solo verbale) contro tecnocrati e inciucisti.
Certo, Diliberto non aveva visto, Grillo è stato sicuramente equivocato/strumentalizzato, Di Pietro reclama il diritto all’uso della violenza verbale per fare resistenza democratica non violenta. E di sicuro quei commentatori saranno (come sono) derubricati a troll, ragazzini, frustrati e semplici cittadini istigati dal sacro fuoco dell’insulto via Internet.
E però quando lo scontento e la rabbia sociale (giustamente) crescono è irresponsabile giocare con le parole e i gesti. Perché il linguaggio (scritto o per immagini) ci plasma, e chi ne abusa commette una doppia infrazione. Da un lato, conferisce un senso di onnipotenza e impunità a chi lo viola. Dall’altro, legittima chi subisce la violenza a reagire con violenza. Perché, appunto, si sente aggredito.
Ecco, qui non è più una questione politica nel senso aberrante, di bottega, che ha assunto nel nostro Paese. Non si tratta più di capire se sia peggio il Formigoni che da del pirla a chi lo attacca o il Rutelli che non vuole gli si rompano le palle con domande sui milioni che gli sono spariti sotto gli occhi. Il problema, in altre parole, non è la bossizzazione dei cosiddetti ‘moderati’ – ma quella del dibattito e, di conseguenza, dei cittadini.
Perché la questione del lavoro, è banale dirlo, è la questione della nostra epoca. Pensare che si possa affrontare collettivamente in modo sensato attraverso un simile imbarbarimento dialettico è non solo stupido, ma pericoloso. Non si risolve il problema, e al contempo si lascia sottintendere che la soluzione potrebbe venire proprio da un’esasperazione dei toni. Ma lo scontro frontale, in questo Paese, è durato vent’anni: e i risultati sono macerie, non fondamenta.
Per ritornare a sperare, e i favori che Monti riscontra nei sondaggi lo testimoniano, gli italiani hanno bisogno di una classe dirigente responsabile, a partire dai comportamenti e dal linguaggio. E di una classe dirigente capace di scavare un solco tra le regole della democrazia e la legge del taglione, senza nemmeno la possibilità del più arcano dei fraintendimenti. Altrimenti si confondono dissenso e violenza. E il risultato non è più libertà, ma più costrizioni.
E’ una questione di metodo, prima ancora che di merito. E, ancor più in una democrazia dimezzata (e arrabbiata) come la nostra, la vera violenza è essere costretti a subire – oltre alle conseguenze dell’austerity – questo costante, imperituro veleno della ragione.