Giovedì Twitter ha annunciato una nuova politica per la rimozione dei contenuti dei propri utenti, che da globale diventa geolocalizzata (una «micro-censorship policy», nell’ottima definizione del New York Times). Ho già scritto di cosa si tratti, raccogliendo anche alcuni pareri che ho trovato particolarmente interessanti nella discussione che ne è scaturita (cui vanno aggiunti quelli, reperiti in seguito, di Alex Howard, Zeynep Tufekci e Luca Conti).
Qualche considerazione personale, che mi fa concludere che ci siano almeno tre buoni motivi (ciascuno foriero di ulteriori dubbi e perplessità) per non gioire della decisione di Twitter:
1. Diversi osservatori hanno fatto notare che la censura si può facilmente aggirare. Ma, data la pubblicità della scappatoia, siamo proprio sicuri che gli Stati che chiederanno la rimozione di contenuti che ritengono in violazione delle loro leggi si accontenteranno della soluzione proposta da Twitter? Tutti felici e contenti di farsi allegramente aggirare dal banale accorgimento? Io non lo credo affatto.
2. Un’azienda il cui funzionamento ha chiare implicazioni sul grado di libera espressione in rete tutela al meglio i diritti dei suoi cittadini digitali espandendosi (e rispettandone le leggi – domanda: anche se violano diritti fondamentali?) anche in paesi in cui la censura è più pervasiva – documentando in modo trasparente la natura delle richieste, legali ma controverse, di rimozione dei contenuti – oppure minacciando di restarne fuori se quegli stessi paesi non fossero in grado di garantire standard adeguati di protezione della libera espressione dei propri utenti? Non ho una risposta esaustiva, ma mi sembra che dire, come hanno fatto in molti, che la scelta di Twitter sia il male minore o la migliore possibile date le condizioni significhi
2.1 da un lato sottostimare il potere di influenzare le decisioni dei governi da parte di aziende come Twitter (soprattutto se decidessero di operare tutte insieme nella stessa direzione) e
2.2 dall’altro abbassare eccessivamente l’asticella di ciò che riteniamo sia un comportamento non solo accettabile, ma anche desiderabile da parte di aziende così rilevanti per il mantenimento di una libera discussione globale (dissidenza inclusa). Certo, questa policy – come scrive Tufekci – è «realistica», e spesso (anche se è ancora tutto da dimostrare) le scelte realistiche funzionano meglio di quelle idealistiche. Tuttavia non sarebbe il caso di alzare il tiro, e quantomeno provare a chiedere di più?
3. Luca Conti ha criticato giustamente l’approssimazione con cui in molti casi si è formata e scatenata la protesta contro la decisione di Twitter: «prima di gridare al complotto, inveire contro qualcuno, boicottare e scappare, criticare e protestare, forse sarebbe bene cercare di informarsi bene e capire se l’opinione sommaria che ci siam fatti sia o meno corretta». Sacrosanto. Tuttavia, più che le dinamiche della ‘rivolta’ online – già viste all’opera in mille altri casi – penso sia urgente concentrarsi sul problema che rivelano (che resta anche una volta che ci si è informati bene, credo), e sulle circostanze in cui questa particolare protesta è nata.
3.1 Il problema trovo sia che, pur date le attenuanti del caso (trasparenza della decisione e aggirabilità della censura su tutte), questa scelta espone maggiormente Twitter a richieste specifiche controverse di rimozione da parte di singoli Paesi. Perché un conto è eliminare un contenuto da tutta la piattaforma, un altro eliminarlo da un singolo Paese. L’assunzione di responsabilità è diversa, sopratutto nella percezione di chi osserva. Il che potrebbe tradursi in molti più casi di censura magari legittima ma inaccettabile dal punto di vista etico e – soprattutto – molto meno visibile, mediaticamente e non. Quanti andranno a controllare riga per riga il database con le ragioni delle rimozioni su Chillingeffect? Quanti, a livello globale, insorgeranno contro decisioni moralmente – e in contesti legislativi più liberi, anche legalmente – errate in Paesi ad alto rischio come quelli coinvolti nella ‘primavera araba’ o la Russia? (In proposito, si leggano i dubbi sollevati da Reporters Without Borders)
3.2 Quanto alle circostanze, non si può ignorare che questa protesta giunge dopo settimane di lotta estenuante contro SOPA/PIPA, la decisione di chiudere d’imperio Megaupload e la firma di ACTA da parte di 22 Paesi dell’UE, Unione compresa. Il tutto mentre a livello nazionale, dall’Irlanda a Singapore passando per Spagna e Italia, curiosi cloni di SOPA e PIPA si ripresentano incuranti delle sollevazioni popolari e della loro intrinseca demenza giuridica. Naturalmente Twitter non c’entra con le scelte dei singoli governi in materia di diritto d’autore online. Tuttavia è in questo ambiente surriscaldato che si muovono le reazioni, anche eccessive o male informate, alla sua nuova politica di gestione dei contenuti degli utenti. Che si sentono sotto attacco da più fronti. E, forse, non hanno tutti i torti a ribellarsi come possono. Insieme a una discussione sulla responsabilità sociale di aziende come Twitter, dunque, sarebbe forse il caso di porre anche un altro tema sul tavolo: l’etica di strumenti di azione politica diretta come i DDoS – come scrive stupendamente Gabriella Coleman su Al Jazeera. Ne discutiamo?