Milano, la «città Wi-Fi».

«Una Milano sempre più Wi-Fi. E gratis per di più, anche se il sogno della copertura totale è ancora lontano. Ma rispetto a qualche anno fa, il wireless è di certo più diffuso»

«Grazie a WiMi, la rete del Comune […] che fa navigare gratis per un’ora al giorno da Cairoli a San Babila (a tempo illimitato nei siti istituzionali)»

«basta autenticarsi con una telefonata gratuita e si naviga»

«si accede alla rete comunale, ci si registra fornendo il proprio numero di cellulare e si va»

«Addio vecchie postazioni fisse? Quasi, perché non tutta la città è ancora in rete. E non dappertutto il servizio funziona perfettamente»

Capisco che si tratta di una guida pratica ai cittadini e non di giornalismo d’inchiesta, e che qualcosa è meglio di niente. Eppure più leggo le sette pagine del pezzo, più mi sento preso in giro.

I motivi sono tanti. Il primo, per esempio, è che la copertura è questa:

Fonte

Cioè una percentuale irrisoria anche soltanto della superficie del centro cittadino. E perfino in queste zone, contrariamente a quanto sostiene il libro delle «cento cose fatte» di Letizia Moratti, il servizio è stato attivato soltanto a ridosso delle amministrative. Questa foto dei gazebo «Scopri WiMi» in Duomo, per esempio, risale al 28 aprile:

Cioè due settimane prima del confronto nelle urne. Ma che si tratti di una mossa elettorale o meno, non riesco a pensare in toni entusiastici a una «libera navigazione» che richieda autenticazione via sms e che duri un’ora al giorno.

Si potrebbe anche notare la straordinaria coincidenza tra gli obiettivi comunicativi di Moratti e le scelte editoriali di ViviMilano, del Corriere. Ma preferisco lasciare da parte la malizia.

La dura vita del non-leader della maggioranza.

Non dev’essere semplice stare nella maggioranza se non sei un leader, di questi tempi. Ti fanno passare mesi a preparare disegni di legge, emendamenti, frustate, piani, banche, grandi opere, miracoli e riforme e poi arriva il Bossi di turno e, in un baleno, spuntano i ministeri al Nord. Che non li vuole nessuno, non se ne è discusso in consiglio dei Ministri o assemblee di partito, non si capisce bene a che cosa servano (a parte rinnovare di altri vent’anni la promessa leghista) ma Berlusconi è d’accordo, ha deciso lui (per ribadire la democrazia interna, ovvio), si faranno.

È  una vitaccia. Pensi di poterti servire di un valido sottosegretario, e ti appioppano un Responsabile che non sa un’acca e arriva pure in ritardo perché non trova parcheggio. Lotti contro le case abusive e Silvio le abbuona. Sguinzagli i vigili per dare le multe, e la Moratti le cancella. Combatti l’evasione e spunta lo scudo. Redigi atti per il pluralismo televisivo e devi tacere quando il tuo leader in campagna elettorale esegue cinque monologhi in cinque telegiornali diversi nel giro di poche ore. O, peggio, lo devi giustificare, dopo averlo trovato normale. Ti adoperi per la missione in Libia e sei costretto a ripetere da settimane che «ha le ore contate», fingere che una guerra civile abbia una data di scadenza – sempre per colpa del Bossi di turno. Volevi tagliare le province? Adesso non lo vuoi più. Volevi il nucleare? Scordatelo.

Poi sei costretto a ripetere da 17 anni le stesse cose: e i magistrati metastasi, e la riforma della giustizia, e meno tasse per tutti, e meno clandestini, immigrati, cinesi, arabi, musulmani, moschee, froci (anzi, femminielli), atei. Meno diversi, più uguali. Alla nostra tradizione celtico-cristiana. Al nostro Cristo con l’ampolla e il «sacro prato». Al nostro crocifisso inchiodato a due passi dal sole delle Alpi. Ma sempre, e comunque, nel nome della «rivoluzione liberale». Sì, anche questo lo devi ripetere per 17 anni.

Infine, il «clima d’odio». Te lo insegnano al mattino, ogni volta che lui, il leader carismatico senza più carisma, si sveglia coi sondaggi storti. Uno spintone al mercato? Colpa dell’amico dei terroristi, dei gay, dei drogati, dei fondamentalisti e dei comunisti. Ti contestano? Identifica e commissiona un paio di editoriali sul fatto che questa «non è più una campagna elettorale», ma una bolgia dantesca. Un’indecenza. Un sopruso che spettina le acconciature delle nobildonne e spande il brandy dei nobiluomini col tesserino. Quello «liberale», sia chiaro. Ti fischiano? Sono dei terroristi. Dai del terrorista? È il «partito dell’amore».

Già, dura la vita del povero ministro, coordinatore, sottosegretario o semplice quadro del Pdl o della Lega. Va bene ripetere bugie a comando. Ma potessero almeno evitare di metterci la faccia. Rilasciarle così, clandestinamente. Mandandole anonime nelle redazioni: «Ministro del Pdl», «Dirigente della Lega», «Responsabile dei Responsabili». Invece ancora le firmano. A pensarli tra vent’anni, a rispondere alle domande dei nipotini a Natale («Nonno, che facevi per campare?»), quasi suscitano un moto di compassione. Non tanto per cosa dovranno inventarsi (su quello sono bravissimi, si sono esercitati una vita), ma per il fatto che loro, i nipotini, lo troveranno su Internet.

L’orrido pasto.

Ha ragione Michele Serra (Amaca di oggi, su Repubblica): un Paese in cui si discute se una falsa accusa porti o sottragga voti a chi la scaglia è un Paese che con il voto si gioca il suo rapporto con la realtà. E da quando Letizia Moratti, giovedì scorso, ha condannato per furto il suo sfidante, Giuliano Pisapia, al contrario amnistiato prima (ma sarebbe stato comunque assolto per mancanza di prove) e assolto nel merito poi (per il gesto, sconosciuto a una certa politica che Moratti difende in modo indefesso da decenni, di aver rinunciato egli stesso all’amnistia), troppi media si sono lasciati colpevolmente guidare dalla sua strategia (ma sarebbe meglio chiamarla contromossa) comunicativa.

Che, in sostanza, ha risposto all’imperativo di minimizzare, distorcendola, la falsa accusa pronunciata (come ha fatto il Giornale); tacerla (come ha fatto il Tg1, che nella edizione delle 20 di giovedì ha dedicato all’episodio, di chiara rilevanza nazionale, una decina di secondi e nemmeno un servizio); o ancora, di inserirla in uno «scambio di veleni» tra candidati a fine campagna elettorale (e qui gli esempi si sprecano). Peccato che da una parte ci fosse un candidato sindaco che cita o dimentica pezzi di sentenze passate in giudicato a suo piacimento a scopi elettorali (se anche diffamatori lo stabilirà la giustizia), e dall’altra un candidato sindaco costretto a subire la falsità senza nemmeno avere il diritto di replica. Non proprio uno «scambio di veleni».

Parato in qualche modo il colpo, anche grazie all’aiuto dei soliti giornalisti indulgenti, Moratti ha subito sfruttato l’attenzione mediatica catalizzata per trasformare il dibattito. E farlo diventare una sorta di referendum sull’opportunità o meno che Milano sia governata da chi «frequentava terroristi». Di nuovo i giornali amici hanno potuto consumare l’orrido pasto. Con picchi su Libero che è bene riportare, a futura memoria:

Libero del 13 maggio.

Libero del 14 maggio.


Nel mezzo ci si è messo pure Michele Santoro, che ha deciso di dedicare un’intera puntata di Annozero allo scontro. Dando così modo a Daniela Santanchè di ribadire il concetto una ventina di volte in prima serata, e insomma finendo per legittimare anche agli occhi del suo pubblico (certamente non filo-morattiano), l’idea che in effetti sul passato di Pisapia ci fosse da discutere, che fosse un argomento utile ai cittadini in procinto di recarsi alle urne. Altro che programmi elettorali. Altro che raffronto tra promesse e cose fatte (e racconto delle cose fatte).

A questo modo, il discorso è definitivamente slittato da quello, fondamentale, che cercava di ribadire la differenza tra verità e menzogna nelle parole della Moratti a quello, a lei congeniale, sul passato dello sfidante. Con l’ulteriore effetto paradossale di rendere la posizione della Lega («parliamo del futuro di Milano, non del passato di Pisapia», ha detto in sostanza Matteo Salvini) quella di accorti statisti. Loro, «i veri moderati», si è letto.

Insomma, Berlusconi ha vinto (mediaticamente) di nuovo: è riuscito a imporre l’idea che il voto amministrativo a Milano sia in realtà un voto politico; a sdoganare il paragone tra magistrati e brigatisti, prima, e tra Pisapia e il terrorismo, poi; a trasformare, in sostanza, il tutto nell’ennesimo sguaiato referendum su se stesso. Territorio dove, la storia lo insegna, ha ottime possibilità di vincere. Il tutto con la complicità di un sistema dell’informazione che in troppi casi insegue la polemica a ogni costo (e il relativo audience) piuttosto dell’interesse dei lettori. Che a questo punto si spera siano in grado di giudicare i fatti nonostante certa stampa. Solo in quel caso, infatti, ciò che in qualunque paese normale sarebbe un colpo mortale alla credibilità di un candidato diverrebbe, anche in Italia, un colpo mortale alla credibilità del candidato Letizia Moratti.

Niente di nuovo, tutto sommato. Ed è questo a essere veramente grave.

Più Berlusconi di Berlusconi, verso la fine di entrambi.

(Ecco perché la famosa frase «Non temo Berlusconi in sé ma Berlusconi in me» è sbagliata)

Il piano è il solito: andare allo scontro frontale, e andarci facendo di me stesso il campo di battaglia. Oramai lo hanno capito anche i fedelissimi, che osano senza più nemmeno renderlo partecipe. E così lui parla di brigatismo giudiziario e spuntano i manifesti «Via le Br dalle procure». Lui chiede di cambiare la costituzione, ed ecco pronto il testo di legge che rende l’Italia una Repubblica fondata sul populismo. Come per le intercettazioni, il processo breve, il conflitto di attribuzione. Ormai sono automatismi: lui detta, loro scrivono. Al punto che loro scrivono anche quando lui non detta. 

Certo, la cosa lo mette un po’ in imbarazzo. Ma come, c’è chi è più Berlusconi di me?, si dice Silvio, ritratto un po’ disperato e un po’ guascone, vecchio ma sempre giovane, solo ma circondato – insomma, come sempre, ritratto pur di ritrarlo. Perché poi, va bene, l’elettore medio magari non ci fa caso, ma se i ministri fanno a gara a prendere le distanze, e interviene perfino il presidente del Senato (quello della Repubblica «sappiamo da che parte sta», no?), e il tutto serve per demolire un concetto analogo a quello che ho espresso io, non è che poi a qualcuno viene in mente di chiedermi di dissociarmi da uno che dice lo stesso di ciò che ho detto io? E poi che faccio, mi dissocio da me stesso? O peggio: ammetto che i miei si dissociano, in ultima analisi, da me? Così ragiona Berlusconi, mentre con una mano tiene il guinzaglio dei Responsabili e con l’altra si guarda, come un Catilina qualunque, dalle congiure di palazzo.

 A furia di alzare i toni mi sono fatto travolgere, pensa, e ora mi tocca distogliere l’attenzione da chi distoglie l’attenzione dei cittadini. Invece di sparare cannonate in libertà contro quegli eversori cancerosi dei magistrati sono costretto a starmene zitto e a cuccia, perché se parlo lo devo fare per smentire, non per rincarare. Certo, posso far trapelare qualcosa ai giornali, far capire che io non ho parlato, ma che in privato stavo con lui, con il sindaco a cui la Moratti ha detto «o io o lui». Così, di passaggio, faccio pure fare la figura della dura e pura a Letizia. Che tocca fare, per campà. 

La strategia paga ancora, ma sempre meno. Invece di parlare di amministrative, si politicizza lo scontro. Invece di raccontare Milano, si racconta la propria guerriglia con la giustizia. Invece di capire i cittadini, capiamo sempre e solo lui. E lo mandiamo a memoria. E lo confondiamo con i cittadini. Così lui può mettere di tutto, sul piatto: giustizia, fisco, crescita, famiglia, federalismo, immigrazione, piano per il Sud. E il loro contrario, se serve. Tanto loro sapranno delle mie promesse da marinaio, pensa, ma crederanno che sia colpa dei miei nemici, se restano tali. Parlo di tutto per parlare sempre e solo di me. Loro lo hanno capito, continua Silvio mentre un Responsabile abbaia, e sono d’accordo. 

Fino a quando non capiranno che, sottratto a questo corpo, il personaggio non fa più tanto ridere. Che se invece di difendere questo povero miliardario di successo, questo perseguitato dalle calunnie e dalle minorenni, questo presidente del Consiglio che come una Mano invisibile incarnata fa il suo bene per fare quello di tutti, si difende un disgraziato qualunque, beh, allora forse non ne vale la pena. A me perdonano, rimugina Silvio, ma non ai miei simili. E infatti guardali come si ringhiano l’un l’altro, come si aizzano nell’attesa che allenti la presa. Quella loro eccitazione non è smania di potere: è paura. Non euforia, ma insofferenza. Aspettano, insieme alla mia, la loro fine. E dove l’hanno vista? In chi mi assomiglia. Questo è il guaio: in chi mi assomiglia