Sono passati quasi ottant’anni da quando Lewis Mumford, in Tecnica e Cultura, predisse che «col maturare della vita sociale la disoccupazione delle macchine si profilerà con lo stesso rilievo dell’attuale disoccupazione degli uomini». Era il 1934. L’anno precedente il tasso di disoccupazione, negli Stati Uniti, aveva raggiunto il suo picco, coinvolgendo 13 milioni di lavoratori – il 25% della forza lavoro. Quindi la previsione suonava come una campana a morto per la macchina. «E’ la natura stessa del mondo che pone dei limiti al progresso meccanico», scriveva il sociologo, contraddicendo i cantori dell’accelerazione costante che sarebbero venuti nei decenni successivi, da Alvin Toffler – che ancora negli anni 70 si vide costretto a coniare il termine future shock per descrivere l’incapacità degli uomini di adeguarsi al passo del cambiamento tecnologico – a Ray Kurzweil e i suoi seguaci contemporanei, su tutti Alyesha e Parag Khanna e la loro idea di era ibrida. Da un lato, dunque, un rinato vitalismo che si sarebbe accompagnato al declino del progresso fine a se stesso e ci avrebbe consentito di mettere fine alla fede incontrastata nelle macchine, e alla sua tirannia; dall’altro, l’idea – diffusa da Mandel e comune negli anni 70 e 80 – della «fine del lavoro» grazie all’automazione resa possibile proprio dal costante, irrefrenabile sviluppo delle macchine. Oggi ci siamo accorti, come scrive David Graeber, che «la civiltà del post-lavoro era una gigantesca truffa». E non ci resta che affidare il nostro sogno di liberarci delle mansioni meccaniche, per dedicarci a quelle creative o semplicemente all’ozio, alla promessa di una Singolarità sempre «vicina» ma sempre di là da venire. La questione dell’uso sociale dell’automazione è tutt’altro che risolta. Non a caso, dunque, il prestigioso Technology Review del MIT di Boston dedica il suo focus di luglio al «futuro del lavoro». Dai primi pezzi pubblicati si scopre che, per esempio, in Cina la Foxconn introdurrà nella catena produttiva un milione di robot nei prossimi tre anni. Che ciò significhi la sostituzione di lavoratori in carne e ossa, tuttavia, non è scontato: «I leader cinesi», scrive Christina Larson, considerano l’occupazione come essenziale per mantenere la società in armonia». Per questo, «l’imperativo di creare lavoro spesso ha la meglio sull’efficienza». Ancora, che l’automazione, lasciando i confini della fabbrica, è divenuta lo scheletro della finanza al punto che tre quarti degli scambi di titoli negli Stati Uniti è condotto da bot. La macchina, dunque, sembra aver fatto irruzione in quella che al tempo di Mumford era considerata una occupazione intellettuale. Al trader automatizzato si affiancano, scrive Antonio Regalado, professioni come il medico e l’avvocato. Non che i robot li debbano sostituire, ma si è prodotto uno scenario in cui l’uomo, il robot e l’algoritmo devono interagire e integrarsi al meglio per ottenere vantaggio competitivo. Nel cinismo tipico della finanza contemporanea, Automate or perish. Da ultimo, a quasi ottant’anni dalla previsione della disoccupazione delle macchine di Mumford, e molti meno dalle utopie di emancipazione dal lavoro di Mandel, Technology Review ricorda un saggio – Race to the Machine – che sostiene che le macchine siano parzialmente responsabili di un aumento della disoccupazione, umana naturalmente, ancora negli ultimi anni. Più produttività più concentrata nelle mani di pochi significa una classe media in affanno, è l’argomento, che andrebbe approfondito. Tuttavia, a colpire nel segno è l’immagine dei ricercatori del MIT, Andrew MacAfee ed Erik Brynjolfsson, che racconta l’andare in frantumi dell’utopia di una «Atene digitale» in cui agli schiavi vengono sostituite le macchine, all’agorà i computer e agli umani non resta che esercitare la democrazia e le arti. «Ciò che stiamo osservando – ed era in larga parte non previsto – è che le persone al vertice della distribuzione delle competenze, dei salari e dei redditi stanno lavorando più ore». Così che coloro che hanno un sacco di tempo libero ce l’hanno perché, in molti casi, sono «disoccupati o sotto-occupati», non certo perché sono stati liberati dalle macchine. «Questa non è la mia versione dell’Atene digitale», conclude MacAfee. Neanche la mia.
Lavoro
Dalla fine del lavoro alla fine del tempo libero
Siamo talmente iperconnessi da vivere brevi periodi offline come esperimenti sociali e antropologici. Insieme ma soli, come argomenta nel suo più recente volume la psicologa Sherry Turkle indagando le conseguenze di un’esistenza continuamente interrotta dalle notifiche dei social media, della posta elettronica, delle infinite possibilità fornite da uno smartphone (oggi) o dalle tecnologie per la realtà aumentata come il Project Glass di Google (domani). Al punto che perfino chi ne critica l’approccio, come Nathan Jurgenson, concede che mai come ora abbiamo assaporato fino alle più sottili sfumature il tempo che trascorriamo lontani da Internet. E che la domanda posta da Andrea Malaguti su La Stampa suona tutt’altro che retorica: «Alienati, soli, ultraconnessi. Liberi o definitivamene schiavi?» Non ho una risposta definitiva su un argomento tanto complesso, e di certo l’iperconnessione porta con sé un misto di vantaggi e svantaggi di cui attualmente è complesso stendere un bilancio esaustivo, e soprattutto scientifico. Tuttavia, il tema delle sue conseguenze sociali è entrato nel dibattito e nella consapevolezza pubblica molto di più di quello – altrettanto se non più importante – delle sue implicazioni per il lavoro. Un esempio. Oggi All Things Digital ha pubblicato i risultati di un sondaggio di Good.com su come la costante connessione a Internet abbia cambiato le abitudini dei lavoratori negli Stati Uniti. I numeri sono degni di riflessione: l’80% degli interpellati continua a lavorare anche una volta lasciato l’ufficio, per un totale di 365 ore all’anno di lavoro aggiuntivo. Per un interpellato su quattro, l’iperlavoro ha portato a scontri con il partner. Anche perché il 40% continua a lavorare anche dopo le dieci di sera, e il 57% controlla le mail di lavoro anche quando è in gita con la famiglia. Il 69%, poi, non va a dormire senza averci almeno dato un’occhiata. E se per metà degli interpellati rispondere alla posta di lavoro ancora a letto o alle sette di mattino serve per meglio organizzarsi, l’altra metà sostiene «di non avere altra scelta che rimanere connessi». Il problema non è nuovo, tanto che in Brasile dallo scorso gennaio rispondere alle mail fuori dall’orario di lavoro viene retribuito come straordinario. Aziende come Volkswagen, Deutsche Telekom e Henkel, si legge sul Corriere della Sera, hanno risposto smettendo, o promettendo di smettere, di inviare posta lavorativa dai server aziendali fuori orario. In Italia, il Paese della guerra ideologica sull’articolo 18 e delle polemiche per una traduzione maldestra delle parole del ministro Fornero sul lavoro come diritto, non ricordo un sindacalista – o un sostenitore del libero web, se è per questo – averne fatto una battaglia di civiltà. Eppure, lungi dalle previsioni degli utopisti, il lavoro non è certo «finito» grazie alle macchine. Semmai è cambiato, ed è cambiato il rapporto tra lavoro e tempo libero – in molti casi, a tutto svantaggio di quest’ultimo. Che questo fenomeno macroscopico sia passato pressocché inosservato agli stessi che si riempiono la bocca delle battaglie per i diritti dei lavoratori dimostra una volta di più che le conseguenze del digital divide vanno ben oltre il pur tragico ritardo nell’adozione di strumenti di e-government e nella diffusione della banda larga. Se a interessarci davvero è la libertà degli utenti, e non solo di ciò che usano, sarebbe il caso di porre la questione all’ordine del giorno.
Il veleno della ragione
Qui non si tratta di chiederci se le facoltà visive abbiano consentito o meno a Diliberto di scorgere la maglietta che si augurava il ministro Fornero al cimitero. O interrogarci sul significato di un Monti che esce da una bara con scritto articolo 18, o di un Di Pietro che sceglie un hashtag gravido di significati come #18vietnam per una discussione sul’argomento via Twitter. E nemmeno di comprendere le decine di commenti che, con il consigliere torinese Musy appena sparato, si auguravano fosse un agguato politico, il ritorno di una giustizia fatta per le strade a colpi di P38.
Qui, a mio avviso, si tratta di capire se c’è una parte della società civile, e dunque della politica, che ha deciso coscientemente di adottare come metodo la legge del taglione. Che è quanto lo stesso Di Pietro implicitamente afferma rispondendo a una mia domanda:
@fabiochiusi E’ un linguaggio adeguato alla violenza che si consuma contro lavoratori, precari e pensionati. Questa è #resistenzademocratica
— Antonio Di Pietro (@Idvstaff) March 22, 2012
Il concetto è chiaro: il governo dei tecnocrati, con la connivenza degli inciucisti, usa «violenza» contro «lavoratori, precari e pensionati». Quindi – e qui sta l’applicazione dell’occhio per occhio, dente per dente – è lecito usare violenza (anche se solo verbale) contro tecnocrati e inciucisti.
Certo, Diliberto non aveva visto, Grillo è stato sicuramente equivocato/strumentalizzato, Di Pietro reclama il diritto all’uso della violenza verbale per fare resistenza democratica non violenta. E di sicuro quei commentatori saranno (come sono) derubricati a troll, ragazzini, frustrati e semplici cittadini istigati dal sacro fuoco dell’insulto via Internet.
E però quando lo scontento e la rabbia sociale (giustamente) crescono è irresponsabile giocare con le parole e i gesti. Perché il linguaggio (scritto o per immagini) ci plasma, e chi ne abusa commette una doppia infrazione. Da un lato, conferisce un senso di onnipotenza e impunità a chi lo viola. Dall’altro, legittima chi subisce la violenza a reagire con violenza. Perché, appunto, si sente aggredito.
Ecco, qui non è più una questione politica nel senso aberrante, di bottega, che ha assunto nel nostro Paese. Non si tratta più di capire se sia peggio il Formigoni che da del pirla a chi lo attacca o il Rutelli che non vuole gli si rompano le palle con domande sui milioni che gli sono spariti sotto gli occhi. Il problema, in altre parole, non è la bossizzazione dei cosiddetti ‘moderati’ – ma quella del dibattito e, di conseguenza, dei cittadini.
Perché la questione del lavoro, è banale dirlo, è la questione della nostra epoca. Pensare che si possa affrontare collettivamente in modo sensato attraverso un simile imbarbarimento dialettico è non solo stupido, ma pericoloso. Non si risolve il problema, e al contempo si lascia sottintendere che la soluzione potrebbe venire proprio da un’esasperazione dei toni. Ma lo scontro frontale, in questo Paese, è durato vent’anni: e i risultati sono macerie, non fondamenta.
Per ritornare a sperare, e i favori che Monti riscontra nei sondaggi lo testimoniano, gli italiani hanno bisogno di una classe dirigente responsabile, a partire dai comportamenti e dal linguaggio. E di una classe dirigente capace di scavare un solco tra le regole della democrazia e la legge del taglione, senza nemmeno la possibilità del più arcano dei fraintendimenti. Altrimenti si confondono dissenso e violenza. E il risultato non è più libertà, ma più costrizioni.
E’ una questione di metodo, prima ancora che di merito. E, ancor più in una democrazia dimezzata (e arrabbiata) come la nostra, la vera violenza è essere costretti a subire – oltre alle conseguenze dell’austerity – questo costante, imperituro veleno della ragione.
Arrivederci, Italia. Ma senza banalizzare.
Italy is losing its best and brightest to a decade of economic stagnation, a frozen labor market and an entrenched system of patronage and nepotism. For many of the country’s most talented and educated, the land of opportunity is anywhere but home.
Italy’s political culture is sclerotic. It has failed to produce young reform-minded leaders like Barack Obama, David Cameron or Nicolas Sarkozy. Berlusconi is 74 years old and serving his third term as Prime Minister, and the country’s crop of political players hasn’t been updated since the early 1990s, when a series of corruption and Mafia scandals upended the electoral landscape. No wonder young Italians want no part of it.
The economy will continue to fade as long as it stifles innovation by excluding its young. Meanwhile, every young person driven away is one less voice calling for reform.
Valutiamo i primi due anni del governo.
Sono passati due anni dall’insediamento del Berlusconi IV. Per l’occasione il sito ufficiale del governo diffonde una “guida sintetica dei provvedimenti e delle iniziative realizzate […] a partire dall’8 maggio 2008″. “Le attività concretamente avviate dall’Esecutivo in questi due anni – si legge – discendono direttamente dal programma elettorale” e sono divise nelle seguenti categorie:
che effettivamente rispecchiano quelle del programma che portò la coalizione alla vittoria.
Valutare il grado di realtà di quanto affermato dal governo è un’impresa titanica per una persona sola. Per questo chiedo il vostro aiuto. Ciascuno nel proprio settore di competenza, ciascuno per la parte – piccola o grande – che è in grado di coprire. Valutiamo tutti insieme quanto di ciò che il governo scrive corrisponde o può corrispondere al vero e quanto, invece, alla realtà nemmeno si avvicina. Al primo punto della prima categoria, ad esempio, figura l’affermazione:
Sottolineo: risolta. Nessun amico campano ha di che ridire?
Facciamo quello che dovrebbe fare l’opposizione: proviamo a ribattere punto per punto. Chissà che non si scoprano i veri punti deboli dell’attività del governo. E, magari, che qualcosa di buono è stato fatto per davvero. L’obiettivo? Ottenere un contro-documento che separi propaganda e promesse dai fatti.
Dite la vostra come commento a questo post o mandando una mail a fabiochiusi@yahoo.it.
L’opposizione siamo noi.