Perché non ci raccontano la rete che non si «rivolta».

Sui quotidiani ‘tradizionali’ ogni occasione è buona per parlare di «rivolta del popolo del web». Per il menù del Senato a prezzi stracciati, per esempio, anche se non ce n’era nemmeno l’ombra e la notizia era vecchia di settimane. Contro Maurizio Sacconi, che ha ipotizzato di mettere in discussione l’esito del referendum sull’acqua. Contro Renato Brunetta e il suo «siete l’Italia peggiore» ai precari. Contro Nichi Vendola che vorrebbe rottamare l’espressione «compagni».

E ancora, a ogni decisione impopolare è immancabile il pezzo che raccoglie la «rivolta su Facebook» o sempre sul web della «base» del partito che l’ha presa. Leghisti che insorgono contro l’appoggio alle leggi ad personam di Berlusconi o la decisione di negare l’arresto di Marco Milanese e la sfiducia a Saverio Romano, militanti del Pd che protestano contro l’astensione sull’abolizione delle province, berluscones infuriati contro il superbollo, la Casta, i diktat da Ue e Francia e molto altro.

Ieri su social network e blog si è molto discussa la famigerata «lista outing» dei dieci presunti politici omosessuali e omofobi. Molti commentatori hanno condannato l’iniziativa: da Valigia Blu a Matteo Bordone, da Vittorio Zambardino ad Alessandro Gilioli, da Alessandro Capriccioli a Galatea Vaglio. E molti altri (sottoscritto compreso). Con i miei stessi occhi ho letto centinaia di status, note, tweet – alcuni a favore, molti contrari.

Abbastanza per parlare di una «rivolta del popolo del web» contro la lista outing? No, perché in rete sono connessi circa 26 milioni di italiani, e il campione a cui ho accesso non è affatto detto sia significativo. Certo, se dovessi giudicare a spanne potrei azzardare che se non c’è stata una «rivolta» (ma poi che significa?) poco ci è mancato. Ma se dovessi invece giudicare con il metro di chi ha costantemente scritto di «rivolta» di questo fantomatico e inesistente «popolo del web» (di fatto, è il popolo italiano), certo non mi sarei lasciato scappare l’occasione per ripetere il concetto.

E invece niente. Questa volta i media ‘tradizionali’ hanno sostanzialmente deciso di ignorare le discussioni che pure innegabilmente ci sono state in rete. E anzi, di sottolineare solo che «su Facebook già decine di migliaia di persone» hanno «rilanciato» la lista nonostante fosse anonima (Corriere), condannare la «totale deregulation dell’informazione» dei «pirati del web» (La Stampa) o la loro «disinvoltura e protervia» (Repubblica). Tutto vero, peccato sia solo parte di una storia guardata con occhio altrettanto critico da altre «decine di migliaia di persone», e proprio in rete.

Ma questo si tace. Come mai? Per rispondere, si può provare a elencare le ragioni che hanno spinto quegli stessi giornali (e molti altri) a scriverne, quando lo hanno fatto. A guardarle nel loro complesso, sembra di poter dire che si tratti di pura e semplice protesta. La rete contro la Casta. La rete contro la dichiarazione eccessiva del politico di turno. La rete come espressione dei malumori della «base» (anche questa, che sarà mai) rispetto a questo o quel partito.

Una collezione di insulti, indignazione, rabbia, banalità e demagogia che sicuramente popola le discussioni in rete. Proprio come abita quelle fuori dalla rete, che pure non fanno altrettanto notizia. E che tuttavia non esaurisce certo il racconto di ciò che avviene su Facebook, Twitter o più in generale nei molteplici luoghi di discussione online.

Viene allora da chiedersi se questa assenza della «rivolta del popolo del web» dalle pagine dei quotidiani ‘mainstream’ nel caso della lista outing sia motivata dalla sua non rispondenza all’idea di rete che questi ultimi, consapevolmente o meno, diffondono. Perché quel ‘no’ pronunciato chiaro e forte da così tante parti, e il più delle volte solidamente argomentato, rompe la narrazione di internet come luogo di protesta a ogni costo, indignazione, insulti, mezze verità e populismo che molti giornali tanto amano. E che è funzionale al mantenimento della colossale falsità per cui ci sarebbe qualcosa (anche se nessuno ha mai specificato cosa) di intrinseco alla rete che ne fa il luogo elettivo delle bufale, della diffamazione, delle sparate istintive e sopra le righe.

I dubbi e le ragioni, insomma, continuano a fare meno notizia delle urla della «rivolta». E questo, semmai, mostra solamente che il qualunquismo di certa stampa è rimasto immutato, fuori e dentro la rete.

(Grazie a Valigia Blu per la collaborazione)

Cinque argomenti per non indignarsi se Berlusconi dice che l’Italia è un Paese di merda.

Argomenti per sostenere che lo sfogo di Silvio Berlusconi sull’Italia «Paese di merda» non meriti la nostra indignazione:

1. Si può definire l’Italia un «Paese di merda» e «il Paese che amo» senza essere necessariamente in contraddizione: si può odiare il proprio Paese per alcuni motivi e amarlo per altri. Non si è in contraddizione, credo, nemmeno sostenendo i due pareri contemporaneamente. Figurarsi ad anni di distanza (il paragone che ha fatto il giro della rete è con la discesa in campo del 1994).

2. Anche un uomo pubblico del calibro di un presidente del Consiglio deve potersi esprimere privatamente come e con chi gli pare senza che per queste sue opinioni possa essere tacciato di venire meno al suo senso dello Stato. Che si giudica, semmai, per quanto compie in qualità di uomo pubblico. L’alternativa non è la trasparenza, ma un incubo. E non ha senso: sarebbe come sostenere che un poeta non è un buon poeta perché tradisce la moglie. Dire, come ha fatto Alessandro Gilioli, che sia rilevante la circostanza che «nel frattempo ha governato quasi sempre lui» significa, credo, confondere i due piani. Altro è il discorso quando si parli di reati compiuti non nella veste di presidente del Consiglio. Ma di un’opinione sarebbe bene non fare un reato.

3. A questo proposito, la frase si trova all’interno di una intercettazione considerata «rilevante» ma non specificamente per il parere espresso da Berlusconi sull’Italia; il processo all’interno del quale è «rilevante» non riguarda le opinioni del presidente del Consiglio sul suo Paese, ma un caso di estorsione. Il parere di Berlusconi è sostanzialmente irrilevante per capirne i confini. E, per quanto detto prima, dovrebbe essere quest’ultima istanza ad avere la precedenza.

4. Uno sfogo non equivale a una posizione ragionata. Certo, se fosse avvenuto in pubblico avrebbe avuto un altro significato. Ma in privato è ben diverso, esce con più leggerezza e ci si mette meno se stessi. Di conseguenza, è più facile si straparli. Chi sostiene il contrario dovrebbe sposare, per la stessa logica, l’idea che se Silvio avesse detto che l’Italia «è un Paese di merda» in conferenza stampa o durante un comizio sarebbe stato lo stesso. A me proprio non torna.

5. Peggio dell’odio è l’indifferenza. Anche ammesso che questa telefonata dimostri che Berlusconi odia l’Italia (cosa possibile, ma non certo dimostrata dalla telefonata) non ci vedo alcun motivo di indignazione: almeno l’avrebbe in un certo modo a cuore. Molto più grave, a mio avviso, è l’indifferenza manifestata non con le private opinioni, ma con la quotidiana attività di uomo pubblico. Personalmente non sono un’amante dell’indignazione, ma se proprio dovessi lasciarmi andare propenderei per la seconda.