Nella provincia di Venezia c’è un assessore alla Cultura, il Pdl Raffaele Speranzon, che chiede la «rimozione» delle opere letterarie dei firmatari dell’appello per la liberazione di Cesare Battisti da biblioteche comunali e scolastiche. La “brillante” idea di realizzare una forma di «boicottaggio civile» ai danni di scrittori come Valerio Evangelisti, Sandrone Dazieri, Nanni Balestrini, Tiziano Scarpa e molti altri è merito di un semplice cittadino, Roberto Bovo, e di un consigliere comunale, Paride Costa.
«Auspichiamo naturalmente», scrivono in una lettera, «che tale azione non rimanga confinata alla nostra Provincia ma sia di impulso e stimolo per altre province desiderose di far sentire la propria protesta ed indignazione». I due, non paghi, sostengono che la lettera sia stata recapitata anche all’assessore regionale all’Istruzione, Elena Donazzan. Chissà che non la sposi, e decida di far sparire i volumi incriminati dagli scaffali dell’intera regione Veneto. Come se tutti i volumi di tutti i sostenitori della liberazione di Battisti non parlassero che della liberazione di Battisti. Come se la rimozione di quei testi impedisse alle menti dei cittadini di formarsi autonomamente un pensiero sulla vicenda. E, magari, di trovarsi d’accordo con l’assassino.
Ad ogni modo, con la loro richiesta gli estensori della lettera dichiarano di «stare dalla parte dei buoni», cioè di chi condanna il terrorista Battisti. Ed è certamente vero che un assassino vada condannato e, di conseguenza, punito. Ma non è un bel modo di pulirsi la coscienza, quello che lava il sangue facendo sparire la cultura. Un’idea che non ridarà pace alle famiglie delle vittime di Battisti e non contribuirà a ottenere l’estradizione dal Brasile del terrorista. Al più potrà riempire di gioia i nostalgici del nazismo e tutti quei topi da biblioteca che avrebbero sempre voluto vivere per qualche giorno dentro Farenheit 451.
La scala per ora è ridotta, ma il principio è simile a quello che istituisce il reato di opinione, sposta le reponsabilità dell’autore sulla sua opera, politicizza la creatività. Segnali non certo carichi di speranza per chi immagina un futuro senza un livello di tensione sociale che permetta alla violenza di sostituirsi alla ragione nel nome di un’utopia politica.
O forse il vero scopo di quella lettera era consegnarci in poche righe tutta la realtà della decadenza non tanto o non solo della cultura italiana, ma del ruolo che la società civile e la politica le attribuiscono. Non più quello di porre delle sfide al pensiero, ma di moralizzarlo. Non più convivendoci, ma rimuovendola. Da ancella, e non da maestra. Ecco, questa è la cultura che tutti gli Speranzon d’Italia vogliono sugli scaffali: quella dei sopravvissuti al giudizio della politica e della morale. L’idea non è nuova, ma funziona. Si chiama totalitarismo. E, per quanto ricordi, ha fatto più di quattro vittime.