Pensioni, esodati e fact-checking: qualche problema

Su Valigia Blu e in un panel sabato all’Internet Festival di Pisa ho provato a porre una domanda: perché in Italia, alla vigilia delle elezioni, il fact-checking delle affermazioni dei politici non è un tema prioritario nell’agenda delle redazioni e della società civile? In altri Paesi giornalisti e cittadini collaborano per mettere al vaglio dei fatti ciò che si dice nei dibattiti pubblici, promesse incluse. Specie in campagna elettorale, quando sono notoriamente nella massima libertà. Con spunti interessanti che si potrebbero facilmente importare e adottare come standard – di nuovo, gli esempi sono nel pezzo su Valigia Blu.

Ma non è così semplice, e un caso concreto lo dimostra. Questa mattina La Stampa scrive che il disegno di legge bipartisan che dovrebbe riformare la riforma delle pensioni Fornero prevede un costo di 5 miliardi di euro. E che la stima è contestata dai tecnici del ministero del Lavoro, secondo cui invece ammonterebbe addirittura a 40 miliardi. Cifra che scende a 30 miliardi, scrive Repubblica, secondo la Ragioneria. Differenze macroscopiche, che fanno dubitare del senso stesso delle stime fornite. Quale esempio migliore per dilettarsi in una operazione di fact-checking? Se anche la proposta non dovesse passare ora, infatti, la si potrebbe ritrovare nei programmi elettorali prossimi venturi. E sarebbe bene sapere se si sta facendo propaganda politica sulle spalle dei pensionati. E degli «esodati», a loro volta nel progetto di correzione della riforma, di cui ancora non si sa con esattezza il numero.

Dove sta il problema? Beh, innanzitutto la questione è terribilmente complicata, e fare un fact-checking degno di tal nome comporta un investimento non indifferente: in termini di tempo, di persone dedicate allo scopo, e dunque di denaro. Ergo: serve una redazione che possa permettersi di assegnare un team di giornalisti a fare luce su quei 25-35 miliardi di euro – cioè un’intera manovra finanziaria – di differenza, e che possa remunerarli come si deve. Non solo: quel team deve avere competenze specifiche, per deve destreggiarsi nella selva di norme e stime sulle pensioni, capire la metodologia  con cui sono state ottenute, le fonti che le motivano, e valutarne la bontà. Il tutto sapendo che molto probabilmente il risultato di quel lavoro non otterrà che un decimo dei click rispetto all’ennesima galleria fotografica della scollatura di Nicole Minetti.

C’è una possibile alternativa: che a farsi carico di quel lavoraccio siano gli utenti in Rete, quel groviglio di persone e interessi che i giornali etichettano frettolosamente come «popolo del web». Ma che ciò sia possibile è tutto da dimostrare. Esempi di «social fact-checking» di questa portata mi sfuggono. E poi, se anche dovesse formarsi una community sufficientemente informata e motivata, bisognerebbe trovare un modo per sviluppare un sistema di controllo indipendente dei fact-checking proposti. Che sarebbero, c’è da giurarlo, pieni di numeri e grafici, e dunque completamente plausibili a un primo sguardo. Ma che niente vieta possano nascondere in realtà l’obiettivo, tutt’altro che disinteressato, di portare acqua al proprio mulino politico. Insomma, dovrebbe crearsi un sistema di auto-gestione della community stessa, basato su un modello reputazionale (x ha detto che questa affermazione è falsa, e x è credibile perché ha accumulato una certa affidabilità sull’argomento). Possibile, certo: ma la strada è lunga, perché questo tipo di meccanismi richiede tempo – e un po’ di fortuna.

Conclusione? Per il momento i politici (e i tecnici) possono continuare a dare i numeri in libertà, anche su questioni sensibili come le pensioni. Se agli italiani interessasse, sarebbe possibile nel medio-lungo periodo sfruttare piattaforme – come quella di Ahref – che consentono ai cittadini stessi di essere cani da guardia, come si dice nei paesi anglosassoni, del potere. Ma, allo stato attuale, per far smettere questa insopportabile propaganda politica basata su numeri che non significano nulla, e farla smettere subito, bisognerebbe che fossero le principali testate del Paese a investire nel fact-checking. Con effetti potenzialmente benefici anche sui tempi di formazione e la numerosità di quelle community auto-gestite. Cosa stanno aspettando, i giornali, è piuttosto chiaro: un modello di business che remuneri una simile scelta. Ma forse, con un po’ di coraggio, si potrebbe (e si dovrebbe) iniziare già ora a fare qualcosa. Senza attendere che la retorica del cittadino informato in Rete si tramuti – lo farà mai? – in realtà.

Emergenza satira

I tecnici, quelli che non fanno politica, improvvisamente si scoprono detentori del diritto di imporre la loro etica bacucca e retrograda a questo povero Paese arenato già di per sé nel Medioevo. Ed ecco, a pochi mesi dalla non-elezione, spuntare il ministro che vorrebbe tassare gli alcolici e spostare le slot machine per promuovere uno stile di vita sano; il ministro che si offende se un vignettista la dipinge in reggicalze; il ministro che dice, neanche fossimo sotto l’Inquisizione o i talebani, che «nessuno deve permettersi» (sì, «nessuno deve permettersi») di scherzare sulla religione. Dicono «vergogna». Dicono che per punire chi osi perculare («dileggiare», si dice «dileggiare») le divinità c’è il codice penale. Danno del maschilista a chi disegna, come non avesse già riservato lo stesso trattamento da mignotta («vergogna!») a colleghi maschi della signora ministro. Ma non fanno politica: sono tecnici. Tecnici della sobrietà, del rigore, della responsabilità, della crescita, del vigore, della forza. Mancano solo le foto a torso nudo nei campi di grano, le purghe e l’olio di ricino. Ebbene, cari ministri, ne ho avuto abbastanza. A voi che non fate politica e vi occupate (rigorosamente, sobriamente) solo dell’emergenza – l’emergenza satira dev’essere compresa nel pacchetto – vorrei generosamente suggerire gli ultimi passi prima di levare il disturbo, se possibile per sempre (sempre visto che a voi della politica non interessa nulla). Primo: una legge che ci consenta finalmente di decidere come morire. Secondo: una che ci permetta di decidere – a noi solamente – se vogliamo sposarci con un uomo o una donna. Terzo: dire una buona volta che il proibizionismo è la più grande ipocrisia che le società umane abbiano mai creato per giustificare i propri vizi e poterli perpetuare all’infinito, e depenalizzare le droghe (almeno quelle leggere). Quarto: affermare il principio inviolabile della libertà di espressione del pensiero – ce ne sono tanti buoni motivi; e sì, vanno al di là del codice penale, ministro Terzi. Non siete in grado di fare nulla di tutto ciò? Fateci il favore di tacere, che le vostre opinioni non sono richieste. E se proprio dovete dire qualcosa in qualità di impotenti – nel senso tecnico, sia chiaro – abbiate il pudore di ricordare al Paese che il primo passo per uscire da questo schifo conservatore, perbenista, moralista, bacchettone, ipocrita, squallido in cui stiamo vivendo passa anche per la derisione di tutto quello schifo conservatore, perbenista eccetera da cui tanto smaniate di distinguervi.

Dalla fine del lavoro alla fine del tempo libero

Siamo talmente iperconnessi da vivere brevi periodi offline come esperimenti sociali e antropologici. Insieme ma soli, come argomenta nel suo più recente volume la psicologa Sherry Turkle indagando le conseguenze di un’esistenza continuamente interrotta dalle notifiche dei social media, della posta elettronica, delle infinite possibilità fornite da uno smartphone (oggi) o dalle tecnologie per la realtà aumentata come il Project Glass di Google (domani). Al punto che perfino chi ne critica l’approccio, come Nathan Jurgenson, concede che mai come ora abbiamo assaporato fino alle più sottili sfumature il tempo che trascorriamo lontani da Internet. E che la domanda posta da Andrea Malaguti su La Stampa suona tutt’altro che retorica: «Alienati, soli, ultraconnessi. Liberi o definitivamene schiavi?» Non ho una risposta definitiva su un argomento tanto complesso, e di certo l’iperconnessione porta con sé un misto di vantaggi e svantaggi di cui attualmente è complesso stendere un bilancio esaustivo, e soprattutto scientifico. Tuttavia, il tema delle sue conseguenze sociali è entrato nel dibattito e nella consapevolezza pubblica molto di più di quello – altrettanto se non più importante – delle sue implicazioni per il lavoro. Un esempio. Oggi All Things Digital ha pubblicato i risultati di un sondaggio di Good.com su come la costante connessione a Internet abbia cambiato le abitudini dei lavoratori negli Stati Uniti. I numeri sono degni di riflessione: l’80% degli interpellati continua a lavorare anche una volta lasciato l’ufficio, per un totale di 365 ore all’anno di lavoro aggiuntivo. Per un interpellato su quattro, l’iperlavoro ha portato a scontri con il partner. Anche perché il 40% continua a lavorare anche dopo le dieci di sera, e il 57% controlla le mail di lavoro anche quando è in gita con la famiglia. Il 69%, poi, non va a dormire senza averci almeno dato un’occhiata. E se per metà degli interpellati rispondere alla posta di lavoro ancora a letto o alle sette di mattino serve per meglio organizzarsi, l’altra metà sostiene «di non avere altra scelta che rimanere connessi». Il problema non è nuovo, tanto che in Brasile dallo scorso gennaio rispondere alle mail fuori dall’orario di lavoro viene retribuito come straordinario. Aziende come Volkswagen, Deutsche Telekom e Henkel, si legge sul Corriere della Sera, hanno risposto smettendo, o promettendo di smettere, di inviare posta lavorativa dai server aziendali fuori orario. In Italia, il Paese della guerra ideologica sull’articolo 18 e delle polemiche per una traduzione maldestra delle parole del ministro Fornero sul lavoro come diritto, non ricordo un sindacalista – o un sostenitore del libero web, se è per questo – averne fatto una battaglia di civiltà. Eppure, lungi dalle previsioni degli utopisti, il lavoro non è certo «finito» grazie alle macchine. Semmai è cambiato, ed è cambiato il rapporto tra lavoro e tempo libero – in molti casi, a tutto svantaggio di quest’ultimo. Che questo fenomeno macroscopico sia passato pressocché inosservato agli stessi che si riempiono la bocca delle battaglie per i diritti dei lavoratori dimostra una volta di più che le conseguenze del digital divide vanno ben oltre il pur tragico ritardo nell’adozione di strumenti di e-government e nella diffusione della banda larga. Se a interessarci davvero è la libertà degli utenti, e non solo di ciò che usano, sarebbe il caso di porre la questione all’ordine del giorno.

Esodati, cronologia di un fallimento ‘tecnico’

I cosiddetti ‘esodati‘ sono lavoratori che non percepiscono più uno stipendio e non hanno ancora una pensione. La riforma previdenziale, con l’innalzamento dell’età pensionabile, li ha gettati nella prospettiva di rimanere in questa situazione per molto più tempo di quanto stabilito con gli accordi presi in precedenza con le aziende, sulla base delle vecchie regole. Che cosa li attende?  

Ecco una cronologia delle possibili risposte:

20 gennaio 2012. Le Commissioni Bilancio e Affari Costituzionali della Camera approvano l’emendamento dei relatori al decreto Milleproroghe. Che stabilisce che gli ‘esodati’ andranno in pensione con le vecchie regole, a patto che l’accordo per uscire dall’azienda sia stato sottoscritto prima del 4 dicembre 2011, anche se hanno lasciato il posto di lavoro successivamente o stanno per farlo. La copertura, scrive l’Ansa, «viene assicurata con l’aumento progressivo dei contributi di artigiani, commercianti e coltivatori diretti, mezzadri e coloni iscritti alle relative gestioni autonome dell’Inps.» Se i fondi non bastassero, perché la platea dei beneficiari è più ampia del previsto, scatterebbe una «clausola di salvaguardia»: «viene innalzato il contributo dei datori di lavoro per i fondi riguardanti gli ammortizzatori sociali.»

24 gennaio 2012. Elsa Fornero si dice contraria all’ipotesi di aumentare i contributi per gli autonomi per coprire gli ‘esodati’.

25 gennaio 2012. Cambia tutto. Per andare in pensione con le vecchie regole, gli ‘esodati’ devono essere effettivamente usciti dalla proprie aziende in data antecendente il 31 dicembre 2011. Per la copertura ora si pensa di aumentare le accise su sigarette e tabacchi. L’importante è che non si raccolgano meno di 15 milioni di euro per il 2013 e 140 milioni per il 2014. Il leghista Fedriga commenta: «hanno escluso coloro i quali hanno fatto accordi prima della manovra ma che entrano in vigore dopo il 31 dicembre, creando di fatto esodati di serie A e di serie B.»

31 gennaio 2012. Via libera della Camera al decreto Milleproroghe. Confermata l’ipotesi del 25 gennaio. A pagare saranno i fumatori.

8 febbraio 2012. Il Milleproroghe sta per approdare nelle Commisioni Bilancio e Affari Costituzionali del Senato. I senatori Castro (Pdl) e Roilo (Pd) presentano un emendamento che si propone di riallargare la platea di esodati che ricade sotto l’ombrello della norma, restaurando la regola inizialmente proposta: il beneficio deve riguardare tutti i lavoratori che abbiano pattuito l’uscita dell’azienda entro dicembre, anche se poi lasceranno il lavoro solo nei mesi successivi. «Ma non si sa esattamente quanti sono», scrive l’Ansa.

13 febbraio 2012. Stop del ministro Fornero: tutta la materia andrà affrontata «in un altro provvedimento, con un altro strumento.» Tradotto: per il momento la norma resta quella approvata a Montecitorio. Accolta solo una lieve modifica: «Il testo licenziato alla Camera affermava che potessero avvalersi delle vecchie regole gli esodati che avevano chiuso il rapporto di lavoro ‘in data antecedente al 31 dicembre 2011’. Formulazione che lasciava fuori quanti uscivano dall’azienda proprio il giorno 31 dicembre. La modifica quindi stabilisce che beneficeranno delle vecchie regole quanti hanno lasciato il lavoro ‘entro il 31 dicembre 2011», scrive l’Ansa.

21 febbraio 2012. La Cgil contesta il numero degli ‘esodati’ circolato fino a quel momento (65 mila persone): a rischio sono «centinaia di migliaia.»

19 marzo 2012. Il ministro Fornero annuncia che la questione sarà risolta con un decreto «entro il prossimo 30 giugno.» Afferma di «comprendere l’ansia di queste persone» e aggiunge: «la soluzione adottata per loro era troppo facile e metteva a carico del bilancio pubblico e quindi della collettività una forma di pensionamento anticipato sulla base di regole la cui sostenibilità era stata messa in discussione da molti.» Fornero, da ultimo, ammette: «Abbiamo cercato di individuare le categorie di persone che dovevano essere esonerate dalle nuove regole, ma il loro numero è stato molto superiore al previsto.»

28 marzo 2012. Il presidente Inps Mastrapasqua afferma che il numero degli ‘esodati’ non è ancora definito. Sui giornali ha iniziato a circolare una cifra: sarebbero 350 mila persone. Anche Giorgio Napolitano interviene sulla questione: «credo che il governo stia studiando la soluzione.»

29 marzo 2012. Il leader Cgil Camusso definisce «scandaloso che l’Inps non sia in grado di stabilire l’entità del problema degli esodati.» Più tardi, Giuliano Cazzola definisce una «campagna irresponsabile» quella di chi afferma che gli ‘esodati’ siano 350 mila: «Le cose stanno diversamente.» E, in ogni caso, c’è la «clausola di salvaguardia», aggiunge. Il direttore generale Inps, Mauro Nori, chiarisce senza chiarire: «Il numero potrebbe essere anche superiore, o inferiore, dipende dalle scelte che veranno fatte.» Il Pd Damiano, invece, non ha dubbi: sono 357 mila.

30 marzo 2012. Fornero: «Sono di più dei conti che abbiamo fatto». E ancora: «Mi sono impegnata a trovare una soluzione entro il 30 giugno, spero di riuscirci prima, una soluzione equa, trovare risorse per consentire al più ampio numero di persone possibili in questo gruppo di andare in pensione con le vecchie regole. Dobbiamo trovare le risorse

1 aprile 2012. Gianfranco Polillo, sottosegretario all’Economia, a La7 dice: «Gli esodati hanno firmato un accordo con le aziende, se cambiano le condizioni che hanno legittimato quell’accordo, secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico, possono chiedere che quell’accordo sia nullo.» Ma fonti del ministero del Lavoro, appena due ore più tardi, smentiscono. Scrive Repubblica.it: «All’uscita di Polillo ha fatto seguito un commento del ministero del Lavoro, che suona come una chiara presa di distanza: in buona sostanza, se il sottosegretario al Ministero del Tesoro, Gianfranco Polillo, ha un buona ricetta per risolvere il problema degli esodati se ne faccia carico personalmente, hanno fatto sapere fonti del dicastero.»

2 aprile 2012. Fornero prende esplicitamente le distanze da Polillo, dicendo – a quanto riporta il Corriere – che serve una soluzione «seria» e che «questa soluzione non sarà annunciata in tv una domenica sera.»

Morale della vicenda:

1. Anche i tecnici non sanno fare i conti.
2. Anche i tecnici non ritengono che saper fare i conti sia una precondizione necessaria per legiferare.
3. Anche se dicono di non essere politici, i tecnici si smentiscono – anche a vicenda – come politici.
4. Alla domanda iniziale non c’è ancora risposta.

Il veleno della ragione

Qui non si tratta di chiederci se le facoltà visive abbiano consentito o meno a Diliberto di scorgere la maglietta che si augurava il ministro Fornero al cimitero. O interrogarci sul significato di un Monti che esce da una bara con scritto articolo 18, o di un Di Pietro che sceglie un hashtag gravido di significati come #18vietnam per una discussione sul’argomento via Twitter. E nemmeno di comprendere le decine di commenti che, con il consigliere torinese Musy appena sparato, si auguravano fosse un agguato politico, il ritorno di una giustizia fatta per le strade a colpi di P38.

Qui, a mio avviso, si tratta di capire se c’è una parte della società civile, e dunque della politica, che ha deciso coscientemente di adottare come metodo la legge del taglione. Che è quanto lo stesso Di Pietro implicitamente afferma rispondendo a una mia domanda:

Il concetto è chiaro: il governo dei tecnocrati, con la connivenza degli inciucisti, usa «violenza» contro «lavoratori, precari e pensionati». Quindi – e qui sta l’applicazione dell’occhio per occhio, dente per dente – è lecito usare violenza (anche se solo verbale) contro tecnocrati e inciucisti.

Certo, Diliberto non aveva visto, Grillo è stato sicuramente equivocato/strumentalizzato, Di Pietro reclama il diritto all’uso della violenza verbale per fare resistenza democratica non violenta. E di sicuro quei commentatori saranno (come sono) derubricati a troll, ragazzini, frustrati e semplici cittadini istigati dal sacro fuoco dell’insulto via Internet.

E però quando lo scontento e la rabbia sociale (giustamente) crescono è irresponsabile giocare con le parole e i gesti. Perché il linguaggio (scritto o per immagini) ci plasma, e chi ne abusa commette una doppia infrazione. Da un lato, conferisce un senso di onnipotenza e impunità a chi lo viola. Dall’altro, legittima chi subisce la violenza a reagire con violenza. Perché, appunto, si sente aggredito.

Ecco, qui non è più una questione politica nel senso aberrante, di bottega, che ha assunto nel nostro Paese. Non si tratta più di capire se sia peggio il Formigoni che da del pirla a chi lo attacca o il Rutelli che non vuole gli si rompano le palle con domande sui milioni che gli sono spariti sotto gli occhi. Il problema, in altre parole, non è la bossizzazione dei cosiddetti ‘moderati’ – ma quella del dibattito e, di conseguenza, dei cittadini.

Perché la questione del lavoro, è banale dirlo, è la questione della nostra epoca. Pensare che si possa affrontare collettivamente in modo sensato attraverso un simile imbarbarimento dialettico è non solo stupido, ma pericoloso. Non si risolve il problema, e al contempo si lascia sottintendere che la soluzione potrebbe venire proprio da un’esasperazione dei toni. Ma lo scontro frontale, in questo Paese, è durato vent’anni: e i risultati sono macerie, non fondamenta.

Per ritornare a sperare, e i favori che Monti riscontra nei sondaggi lo testimoniano, gli italiani hanno bisogno di una classe dirigente responsabile, a partire dai comportamenti e dal linguaggio. E di una classe dirigente capace di scavare un solco tra le regole della democrazia e la legge del taglione, senza nemmeno la possibilità del più arcano dei fraintendimenti. Altrimenti si confondono dissenso e violenza. E il risultato non è più libertà, ma più costrizioni.

E’ una questione di metodo, prima ancora che di merito. E, ancor più in una democrazia dimezzata (e arrabbiata) come la nostra, la vera violenza è essere costretti a subire – oltre alle conseguenze dell’austerity – questo costante, imperituro veleno della ragione.