Pensieri di Renzo Bossi ad Arcore.

Io me lo vedo Renzo Bossi ad Arcore, oggi. Seduto sulla sua sedia, un po’ in disparte. Teso, attento. In imbarazzo, no: dopo Hillary Clinton ha imparato a dosare il fiato e le forze, trovato la postura e il sorriso adatto. Me lo vedo, Renzo. A sentire il padre parlare di decentramento operativo di uffici ministeriali, vedere Berlusconi annuire, Alfano sbuffare, Calderoli ringhiare, le guardie del corpo guardarsi sotto agli occhiali da sole. Me lo vedo mentre gli viene un dubbio, tira la giacca del padre, gli sussurra in un orecchio «Umberto, guarda che a Roma si incazzano». E il padre mugugna. Tirarlo di nuovo, sussurrargli di nuovo «guarda che ai nostri elettori non interessa», e il padre mugugnare ancora, questa volta cercando di scacciarlo con la mano.

Me lo vedo, Renzo. Che torna a sedere poco lontano. Ascolta il discorso che nel frattempo è ripreso, arrivato alla riforma del fisco. Me lo vedo cercare con lo sguardo Tremonti, fissarlo mentre, con compostezza, guarda Silvio e scuote il capo. Guarda Umberto e scuote il capo. Guarda Calderoli e guarda subito fisso davanti a sé. Lo immagino cercare Silvio, mentre dice animato «solo qualche miliardo, solo per un anno», e mentre poi dispera per il diniego. Fissarsi sul padre, anche lui petulante, ma con rozzezza. «Giulio, questo non me lo puoi fare». E lui, Giulio, scuote comunque il capo, solo un po’ meno convintamente. Renzo, lo posso vedere, si sporge di nuovo verso il padre, prende lo stesso lembo della giacchetta e raggiunge lo stesso orecchio. «Umberto, guarda che gli elettori si incazzano, vogliono pagare meno tasse». E il padre, questa volta, mugugna in un altro modo, come rassegnato. «Umberto, ma non eravamo venuti qui per questo?», attacca. «Zitto, Renzo». E la mano, ancora, per scacciarlo. Prima di aggiungere, l’Umberto: «Per una volta che si era d’accordo con Silvio».

Vedo Renzo sulla sua sedia, mentre guarda un segretario nuovo di zecca prendere appunti, in silenzio. Mentre fissa gli occhi sugli occhi del padre che fissano quelli di Ghedini che fissano quelli di Brancher. Lì, sulla sedia, ascolta parole di circostanza, affranto. «Ti posso dare il ministero della Giustizia», dice Silvio a Umberto. «Non lo voglio, guarda a che ti è servito. A finire in tribunale», risponde, perfido. «Allora facciamo Giulio viceministro, più uno dei tuoi». Pausa. «Un altro». «Che è, una battuta?». E Silvio, Renzo lo vede, abbozza il sorriso con cui si è spalancato tante porte. Ma niente: nemmeno le parole di circostanza vanno a buon fine. Il segretario annota, e scrive: «nulla di fatto». Umberto si alza, si avvicina a Renzo e lo porta via. «Ora sai qual è la parte peggiore, figliolo?», dice l’Umberto, un po’ alla John Wayne. «Che dobbiamo mentire, a tutti. E già non ci credono più. Figurarsi fino al 2013».

Ad Arcore, nel mezzo degli scontri.

La ragazza prende la rincorsa. È furibonda e sconvolta. La terza carica delle forze dell’ordine, la più decisa, è appena terminata. Nell’aria c’è ancora una elettricità malata, di quelle che si propagano tra le persone quando scatta la violenza. Lei si getta nello spazio dove fino a pochi istanti prima c’erano manganellate e bottiglie di vetro lanciate contro gli scudi trasparenti e, quasi a colmarlo, urla: «Berlusconi, crepa!».

Forse è tutto in quell’urlo istintuale, in quella scarica di adrenalina fatta rabbia, il senso degli scontri avvenuti oggi ad Arcore, a pochi passi dalla villa dove il presidente del Consiglio ha intrattenuto capi di Stato e prostitute con la stessa proverbiale disinvoltura. In quel cortocircuito che identifica Silvio Berlusconi e i giovani in tenuta antisommossa, le sue colpe e le loro, sembrano nascondersi tutti gli altri. Quello che muove la mano del ragazzo che strappa lo specchietto retrovisore da una Clio grigia e lo lancia sui celerini. Quello che fa ritenere normali, consuete le manganellate che hanno aperto un buco nel braccio di un giovane in tenuta mimetica e rasta. Quello che tiene duecento persone a pochi millimetri dallo sbarramento che le separa dalla propria nemesi. Per ore. Unendole quando non accade nulla. Spingendole quando sale il grido di battaglia. Moltiplicandone il coraggio o, se si vuole, l’incoscienza.

È il volto scuro del Giano bifronte andato in scena poco prima. Perché se le danze, i canti, le speranze sono appese a un filo viola intessuto d’insulti, non si riesce a stupire della violenza. Non che ci sia un legame diretto tra la manifestazione, pacifica, a tratti perfino gioiosa e divertita del Popolo viola e la furia insensata di chi siede nel mezzo di un incrocio per impedire il passaggio delle vetture di ignari concittadini, aggredendoli, minacciandoli se dovessero scattare delle fotografie. Non c’è nessun rapporto di causa ed effetto tra lo striscione che dice a Berlusconi «se non vuoi dimetterti, sparati» e la bottiglia di vetro scagliata a tutta forza contro un’auto che chiede solamente di seguire la propria strada.

Eppure chi era oggi nella piazza di Arcore ha potuto respirare la stessa frustrazione, nella piazza e negli scontri, nei balli e nelle botte. Una frustrazione sorda, che ha un unico nome ma molte radici. Il nome, naturalmente, è quello di Silvio Berlusconi. Il mafioso, il puttaniere, la merda, il ladro, il corrotto, il pedofilo. Le radici, al contrario, sono quelle che ciascuno dei manifestanti si porta dentro. E che portano alcuni a sfogare la propria indignazione con un simbolico lancio di mutandine e altri con la forza.

C’è stato un momento, nel pomeriggio, verso le 16, in cui si è respirata l’attesa che qualcosa d’altro accadesse. E la certezza che sarebbe accaduto. È stato quando alcuni gruppetti si sono diretti verso le due imboccature che conducono alla villa del presidente. Già allora si era capito che ciò che stava andando in scena sul palco non aveva più significato. Piano piano la noia si è tramutata in eccitazione. I cori si sono fatti più aggressivi, le distanze tra le persone meno pronunciate. Tanto che gli organizzatori hanno cercato ripetutamente, senza successo, di ricordare che nessun corteo era stato autorizzato, che la manifestazione non avrebbe dovuto degenerare per nessun motivo, che chi avesse mosso un dito contro le forze dell’ordine avrebbe vanificato il lavoro dei tanti che si sono spesi per un pomeriggio di dissenso, e non di violenza.

Ma non c’è stato niente da fare. La rottura si è consumata poco più tardi, nel luogo che sarà teatro degli scontri. Un membro dei gruppi locali del Popolo Viola impugna un megafono, urla con convinzione cercando di persuadere chi vuole il corteo che si tratta di una pessima idea. Un uomo corpulento, tuttavia, gli si fa vicino. Lo guarda dritto negli occhi e gli dice: «Protestare è un mio diritto, lo sancisce l’articolo 21 della Costituzione. E tu chi sei per dirmi come devo protestare?». L’organizzatore cerca di spiegargli che i diritti costituzionali con la violazione del domicilio del presidente del Consiglio c’entrano poco, ma non c’è niente da fare: la folla sta con l’altra parte. Vuole forzare la mano. Lo farà, di lì a qualche minuto.

E allora viene da chiedersi cosa ci sia dietro questa volontà di interpretare la libertà come un bene talmente assoluto da ritorcersi nel suo contrario. Senza generalizzare: perché oggi nove persone su dieci erano venute a chiedere le dimissioni di Berlusconi, bere qualche birra, incontrare gli amici e fare onore alla splendida giornata di sole. Eppure quell’uno restante, a un certo punto, sembrava parlare per tutti e dieci. E anche durante gli scontri, terribili per chi come me non li aveva mai vissuti in prima persona, da pochi metri di distanza, si respirava una unità d’intenti inaspettata. Che ha portato alcuni a provocare le forze dell’ordine e altri a sorridere delle provocazioni. Come se tutti si fosse in attesa di un evento rivelatore, di una redenzione di massa che portasse, di colpo, la giustizia non tanto nel Paese quanto nella mente e nel corpo di ogni manifestante.

Forse è questo macigno d’insensatezza che ci ha tenuti per lunghissimi minuti fermi nella speranza, folle, che qualcosa accadesse, fosse anche il più brutale degli scontri. Che ci ha permesso di giustificare in anticipo quello che sarebbe accaduto. E che magari ha portato le manganellate oltre il consentito, generando reazioni spropositate, altrettanto folli. Chissà. Quel che è certo è che l’insensatezza genera insensatezza, e che della giornata di oggi non resterà che l’ennesima prova di questo banalissimo teorema.

Renzi, Arcore e la rottamazione dell’ideologismo.

Sta facendo discutere in rete l’incontro, avvenuto ieri pomeriggio ad Arcore, tra il “rottamatore” sindaco di Firenze Matteo Renzi e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Oggetto, secondo il Corriere della Sera,

chiedere al governo uno stanziamento per Firenze nella legge «milleproroghe» oltre, forse, al via libera per l’istituzione di una tassa di soggiorno che porterebbe nelle casse comunali fiorentine una quindicina di milioni di euro all’anno, soldi provvidenziali per i conti in affanno di Palazzo Vecchio.

Renzi ha deciso di spiegare le ragioni della visita in una nota su Facebook dove, affrontando le prime polemiche, scrive:

Qualcuno mi ha detto che non dovevo andare ad Arcore. Io gli incontri istituzionali del Comune li faccio in Palazzo Vecchio. Se il premier invece riceve nella sua abitazione, io vado nella sua abitazione e alla fine ringrazio dell’ospitalità. Vorrei essere chiaro: per Firenze, che è la mia città, quella per la quale ho giurato sulla Costituzione di fare bene il mio lavoro, io vado ad Arcore anche tutti i giorni se serve.

In molti, tra i fan della sua pagina sul social network, non sembrano convinti dalla spiegazione. E accusano: «Proprio adesso doveva andare ad onorarlo a casa sua dove riceve le zoccole?», «Finalmente sappiamo chi sei, finto come pochi: ti sei autorottamato», «La vecchia politica da rottamare è anche quella che si fa negli incontri privati, nelle cene a quattrocchi coi potenti di turno», «Un buon sindaco che fa la cosa giusta nel posto sbagliato nel momento sbagliato: o ci sei o ci fai», «Sei caduto in una trappola», «Vergogna», «Certe cose si fanno nelle sedi istituzionali e non nella reggia del sultano», «Ti sei piegato al diktat del nano malefico», «Rottamate il rottamatore!», «Un’azione alla Capezzone, spero tu abbia la compiacenza di dimetterti», «Puttano!», «In questo momento vorrei prenderti a calci in culo» e via dicendo.

Renzi risponde con uno status in cui si dice «divertito dalle reazioni». A me, onestamente, non divertono affatto. Perché rivelano quanto a fondo si sia insinuato il germe dell’esasperazione del nemico, quanto sia ormai diventata esercizio abituale al posto del dibattito fondato sugli argomenti. A parte gli insulti belli e buoni, non capisco per quale ragione un sindaco non possa difendere i propri elettori anche nella dimora del presidente del Consiglio. Quasi che una estrema sozzura morale, aleggiante tra le pareti di villa San Martino, infetti invariabilmente chiunque vi entri in contatto.

O forse è l’aria di inciucio, che tanti danni ha procurato al centrosinistra? A me risulta gli inciuci si siano materializzati in Parlamento, non nelle ville di Berlusconi. Se da domani Renzi dovesse manifestare strani segnali di dalemite sarei pronto a ricredermi, ma fino ad allora, fino a un gesto che concretizzi il sospetto che abbia incontrato Berlusconi nella sua reggia in nome di un qualche secondo fine politico, preferisco difendere le ragioni di chi antepone la prassi a un’ideologia demente che è esattamente lo specchio rovesciato di quella berlusconiana.

E lo scrivo non perché Renzi mi stia particolarmente simpatico o perché veda in lui un possibile riferimento politico: è per l’amore di una capacità critica che certi strati della popolazione hanno perso. Finché non saranno in grado di recuperarla, produrrà solamente condanne, moralismo, ditini alzati. E nessun cambiamento. Viene il dubbio, caro Renzi, che insieme a questa classe dirigente vada rottamato l’ideologismo. Ora però tocca a te, girando per le piazze e le città del Paese, dire ai tuoi elettori che, in parte, vanno rottamati pure loro.

Ruby al Tg1: tanto rumore per «alcune cene».

Insomma, c’è una vicenda in cui ci sarebbero in ballo doni monetari in contanti (dai 30 ai 150 mila euro, dipende dai racconti), abiti, gioielli e un centro benessere fatti dal presidente del Consiglio in persona a una minorenne come ricordo di serate passate in piscina insieme a un numero indefinito, ma probabilmente a due cifre, di escort rimediate per l’occasione da zelanti (e indagati per favoreggiamento della prostituzione) esponenti dell’entourage dello stesso presidente del Consiglio.

Ci sarebbero telefonate (non smentite) dalla presidenza del Consiglio alla Questura milanese per imporre il rilascio della stessa minorenne, Ruby H., definita per l’occasione la nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak, accusata in quel momento di furto e priva di documenti. Così che possa allontanarsi insieme alla ex igienista dentale del presidente del Consiglio, naturalmente.

Ecco, ci sarebbe una vicenda tutta da verificare, il cui contenuto, tuttavia, è per sommi capi quello appena esposto.

Non per l’edizione odierna delle 13:30 del Tg1. Per il principale servizio di informazione della televisione pubblica, la questione riguarda «alcune cene nella residenza di Silvio Berlusconi». Grazia Graziadei ha quasi due minuti per spiegare ai telespettatori cosa sia successo. E dovrebbe farlo, dato che il presentatore si è limitato alle «cene». Invece si ferma all’attacco: «Verbali rilanciati dai giornali. Tutto ruota intorno alle presunte dichiarazioni di una marocchina minorenne che secondo organi di stampa avrebbe partecipato a cene nella residenza del premier ad Arcore».

E che c’è di male? Serve aprire un’inchiesta per qualche cenetta a casa del presidente del Consiglio? Gli spettatori del Tg1 saranno costretti a rimanere nel dubbio, dato che dopo i dieci secondi netti spesi per illustrare il contenuto della vicenda, Graziadei decide di impiegare il restante minuto e trenta a negare l’esistenza delle denunce «della giovane marocchina» (e due), far credere che il succo della questione sia la presenza a tavola di Daniela Santanchè e Georg Clooney e registrare le reazioni di Sandro Bondi, Niccolò Ghedini e della stessa Santanchè (sempre in nome del pluralismo). Che può disporre di ben 53 secondi di orologio per dire che sì, insomma, bastava fare una telefonata a Clooney, lui avrebbe confermato che non si sono mai conosciuti.

In questo video, il confronto con chi, al contrario, ha deciso di dare la vera notizia:

Nell’edizione delle 20:00, le «cene», diventano «feste». Ma solo sul sito. In video, a parte un incomprensibile titolo «Ruby e le feste ad Arcore» (incomprensibile perché né del nome Ruby né dell’idea che di mezzo ci siano feste i telespettatori del Tg1 sanno alcunché), restano «cene». Anche se nei quasi tre minuti di servizio appare una citazione rapidissima e del tutto non contestualizzata del «presunto intervento di palazzo Chigi per fare rilasciare la ragazza marocchina per furto» (furto di che?, perché?, che c’entra?). Solo per poter mandare in onda la replica di Berlusconi, che altrimenti non avrebbe senso (è sempre il solito dilemma della disinformazione: come dare una smentita senza dare la notizia?).

In compenso resta la “fondamentale” punzecchiatura ad Annozero («nessun contraddittorio, usiamo il sistema di Annozero: contraddittorio nei miei confronti, zero»). Poi ancora un paio di sottolineature del termine “marocchina”, il tempo di mandare in onda la replica di Emilio Fede al Tg4 e ripetere per intero i 53 secondi a Santanchè, e il gioco (di Minzolini) è fatto.

Insomma, pretendere che il Tg1 spiegasse il significato della “bunga bunga” menzionata da Ruby (e – a quanto dice – praticata dal presidente del Consiglio) sarebbe stato troppo. Ma almeno impedire che il nulla prendesse, per l’ennesima volta, il posto delle notizie sarebbe stato doveroso.