Secondo Mc Kinsey, c’è un tesoro nascosto nelle «tecnologie sociali» (cioè i «prodotti e servizi che consentono le interazioni sociali nel regno del digitale»). Per scovarlo, e metterlo a frutto, le aziende devono ripensare le pratiche di business cercando di sfruttarne al meglio la capacità di generare valore. Che, stando ai settori esaminati dalla società di consulenza, ha ancora ampi margini di sviluppo e può raggiungere in condizioni ottimali una cifra compresa tra 900 e 1.300 miliardi di dollari.
Ma come si crea quel valore? McKinsey, nel suo lungo rapporto The Social Economy: Unlocking Value and Productivity through Social Technology, fornisce dieci esempi:
Il valore generato (345 miliardi per operazioni e sviluppo di prodotti, 500 dal marketing, 230 dal miglioramento delle attività di supporto al business) si traduce anche in benefici per i consumatori: prezzi più bassi, prodotti di qualità migliore e tarati sulle loro preferenze, servizi clienti più efficienti.
Non solo: secondo McKinsey sfruttare al meglio le tecnologie sociali «ha il potenziale di aumentare la produttività dei lavoratori della conoscenza altamente qualificati, decisivi per i risultati e la crescita nel XXI’ secolo, dal 20 al 25 per cento».
Il tutto a patto che le aziende siano disposte a rimettere in discussione in profondità i loro modelli organizzativi e manageriali, nella direzione di maggiore collaborazione all’interno dell’impresa e tra imprese, meno gerarchie e maggiore condivisione delle competenze prodotte. In altre parole, le aziende devono diventare networked attraverso tutta la catena del valore.
Al di là dei numeri, sono diverse le questioni sollevate.
La prima è che McKinsey considera i rischi derivanti da questa rivoluzione «social» (dalle violazioni della proprietà intellettuale e della privacy al furto di identità) minori dei benefici che ne derivano.
La seconda è la velocità con cui questa rivoluzione ha preso piede. Scrivono gli analisti di McKinsey: «Mentre alla televisione commerciale sono serviti 13 anni per raggiungere 50 milioni di famiglie e tre anni agli Internet Service Provider per registrare 50 milioni di abbonamenti, a Facebook è bastato un anno per raggiungere 50 milioni di iscritti». Con una conseguenza, nel solco di quello che Alvin Toffler chiamava future shock già nel 1970: «La velocità e le proporzioni dell’adozione delle tecnologie sociali da parte dei consumatori hanno superato quelle di qualunque altra tecnologia precedente. Tuttavia, consumatori e aziende sono ben lontani dallo sfruttarne appieno il potenziale di impatto». Le implicazioni non sono solamente sociali, dunque, ma anche economiche. E si traducono – attualmente – in valore e produttività sprecati.
La terza e ultima è che in una fase di forte criticità per il sistema economico globale, lo studio di McKinsey sembra sottolineare che una delle leve per far ripartire la crescita non stia nella competizione, ma nella collaborazione. Soprattutto, nella capacità della comunicazione e delle reti sociali di ridefinire i mercati. Un concetto che collima con l’analisi di Yochai Benkler nel celebre The Wealth of Networks (e che dunque porta con sé tutte le critiche ricevute da Benkler; in italiano, si veda l’analisi di Carlo Formenti in Felici e sfruttati). Ma che, dalla sua uscita nel 2006, non pare essere stato ben compreso da chi negli anni seguenti ci ha portati sull’orlo del baratro. Ancora una volta, dipende dagli uomini più che dalle tecnologie. Perché, come spiega Michael Chui, tra gli autori del rapporto, a Bits del New York Times, «Queste tecnologie hanno successo quando persone influenti fungono da modelli, utilizzandole e spiegandole».
Resta solo una domanda: siamo sicuri lo studio abbia analizzato fino in fondo il (dis)valore economico – oltre che umano – degli usi delle tecnologie sociali a fini di controllo e repressione?