Su ‘Epepe’ di Ferenc Karinthy

67d20c9709f9087a090450a1cf108a2e_w600_h_mw_mh_cs_cx_cy‘Epepe’ di Ferenc Karinthy suggerisce che la vera antiutopia sia l’alienazione completa dalla possibilità di comunicare con altri esseri umani. Che l’essenza del male sia l’incomprensione. Budai, il protagonista del romanzo pubblicato dallo scrittore ungherese nel 1970, è un linguista che fa scalo verso Helsinki, diretto a un convegno, solo per addormentarsi sul volo sbagliato e riprendere conoscenza in una metropoli (in inglese il testo è intitolato ‘Metropole’) in cui nessuno comprende alcuna della dozzina di lingue da lui correntemente parlate. Si trova in un albergo, privato del passaporto, e con 200 unità della moneta locale: ma è tutto ciò che gli è concesso.

È qui che poco alla volta, lucidamente, senza mai rinunciare al proprio raziocinio, Budai testimonia che senza la possibilità di guardarci attraverso le parole degli altri, di sentirci compresi da io che non siano il nostro, vacilliamo, diventiamo noi stessi frammenti insignificanti di un’umanità insignificante, abbandonata a un giudizio su cui non abbiamo alcun modo di intervenire. Come la vita quotidiana di Budai: una ripetizione infinita di gesti privi di senso nonostante siano tutti razionalmente indirizzati al tentativo di comprendere l’accaduto, in che luogo sia finito, perché, e quando avrà termine il supplizio.

Diversi recensori sottolineano come la distopia di Karinthy si possa e debba leggere come una satira della Mosca di Breznev, specie – scrive Francesco Peri – vista “con gli occhi di visitatore Occidentale degli anni ’70”; e i fatti della rivolta ungherese del 1956 affiorano tra le pagine finali, nell’insurrezione popolare – di nuovo, completamente incomprensibile, quasi casuale nel suo darsi – prima pacifica, perfino gioiosa e poi armata, perché repressa dai carri armati, di cui il protagonista si trova a essere parte. Ma l’atmosfera che si respira nel romanzo è anche e soprattutto astratta, dell’astrazione dello Swift de ‘I viaggi di Gulliver’, dello Skinner di ‘Walden Two’, del Saramago di ‘Cecità’ e del migliore H. G. Wells.

Semplice il rimando a Kafka, ma come sottolinea Emmanuel Carrère nella prefazione alla nuova edizione italiana curata da Adelphi sono il rigore fiducioso e la tenacia disperatamente calcolatrice di Budai a costringerci a prenderne le distanze. Anche se un pensiero resta, alla fine della lettura: e se la metropoli non fosse che la metafora di un’immensa punizione tutta architettata contro il protagonista? Se la burocrazia terrorizzante del ‘Processo’ fosse semplicemente trasposta in architetture, edifici costruiti senza sosta, luoghi, code infinite di esseri senza futuro, grandi magazzini inutilmente affollati, strade e stazioni che conducono ovunque tranne che altrove?

È questa, credo, l’essenza dell’incubo di Karinthy, e il motivo per cui a mezzo secolo dalla stesura risulta ancora così pungente: come si scappa da una prigione in cui nessuno ti comprende? È il terrore del perfetto isolamento da ciò che ci circonda che assale quando visitiamo luoghi radicalmente alieni alla nostra cultura e abitudini, ma è anche tutto sommato una riedizione perfino più spietata dell’orwelliana riscrittura della storia. Cos’è il passato se non abbiamo un modo condiviso per dirlo? Cosa in un luogo che attraverso la lingua – e dunque la base del pensiero – è perfettamente isolato non solo dal resto del mondo, ma perfino da se stesso? Budai lo annota ripetutamente, nei suoi tentativi di decifrare una lingua che, come la storia di Orwell, sembra continuamente cangiante, diversa, mutevole nonostante intenda lo stesso: perfino gli abitanti di quello strano paese sembrano non capirsi tra loro, parlare tante lingue quanti sono gli individui.

È questa forse una delle risorse più terribili per un potere che fosse in grado di comandare quella Babele: l’incomprensibilità è un modo per riscrivere l’umano, riprogrammare i sentimenti, redirigere i passi e mutare ogni gesto quotidiano. In molte narrazioni antiutopiche, l’amore è la salvezza – e la figura femminile, sempre compromessa con il difforme, ne è il disvelamento. ‘Epepe’ non fa eccezione: la donna dal nome incerto – Pepe, Bebe, Edede, Epepe – che accompagna Budai al piano, in ascensore, è l’unica persona che definiremmo comunemente tale. Cerca di interessarsi al suo spaesamento, prova a porvi rimedio con lunghe soste al diciottesimo piano, riesce perfino a scatenare in lui reazioni irrazionali – l’attrazione, la violenza. Ma non basta a salvarci, sembra suggerire Karinthy. Nemmeno ciò che non si esprime a parole ha senso, senza parole che significano.

Dieci cose sul risultato delle Europee

Considerazioni sulle Europee a caldo, a tarda notte e al risveglio:

1. Renzi con 20 punti di vantaggio su Grillo non se lo aspettava nessuno. Nessuno. Il che significa che abbiamo sbagliato tutti, un’altra volta, a capire il Paese.

2. Dato politico da non sottovalutare: Berlusconi questa volta è davvero politicamente morto, e con lui il centrodestra italiano.

3. Scelta Europea è semplicemente scomparsa, e con lei probabilmente tutto un progetto politico che sembra già provenire da un’altra era, passata.

4. Il MoVimento 5 Stelle ora ha un problema serio: la sua non-leadership deve gestire una prima, vera sconfitta. Sonora (meno 2,5 milioni di voti rispetto alle politiche), e anche più grave perché giunge dopo che si è lanciato un guanto di sfida, si è sbeffeggiato il nemico, e il nemico ha stravinto. Grillo poi aveva detto che se ne sarebbe andato in una circostanza di questo tipo, e questo – che accada o meno – è un’arma politica nelle mani degli avversari. E sarà difficile per i suoi dire che è “disinformazione”. Cosa sarebbe poi il movimento senza Grillo e/o Casaleggio è difficile dirsi.

5. Di conseguenza, si apre un periodo complicato per i Cinque Stelle. E dovrebbe riguardarci tutti, dato che è il principale partito di opposizione in un Paese in cui il governo di fronte a nazionalismi montanti, sfiducia, euroscetticismo, crisi economica ottiene il 40% dei consensi. La tutela del dissenso diventa una volta di più fondamentale, dopo questo voto.

6. Così come fondamentale è assicurarsi che il culto della velocità non riprenda quota travolgendo le discussioni di merito: ora che Renzi può dire di aver legittimato la sua presenza a Palazzo Chigi con il trionfo di queste ore, potrebbe non conoscere freni.

7. Arresti e mazzette non sembrano avere influito affatto sull’esito elettorale.

8. L’astensionismo continua a crescere, pur restando in Italia ai livelli tra i più bassi d’Europa. Il che dovrebbe farci riflettere su come viene percepito il senso stesso di queste elezioni.

9. Sarei molto cauto nel concludere, come si è letto, che mentre nel resto d’Europa avanza il populismo, in Italia arretra. Non c’è solo il populismo degli euroscettici e dei nazionalisti, e non credo che il consenso ottenuto da Renzi sia radicalmente altro dal populismo. Anzi.

10. Servirebbe più umiltà da parte di tutti: di chi fino a ieri aveva solo Verità Assolute e oggi scopre quanto fossero lontane dalla realtà, e di chi ha vinto. Finora, a leggere molti giornalisti e commentatori politici su Twitter, non ce n’è traccia.

Perché la campagna elettorale fa schifo

In questi giorni sto pensando molto alla differenza terribile che c’è in politica tra una bugia (o una serie di bugie) e una verità assoluta (o una serie di verità assolute). Al fatto che sia, credo, molto peggio la seconda della prima, perché se la prima si può mostrare (nel senso proprio di ‘far vedere’) per quello che è, confutare con dati e fatti, per la seconda non abbiamo che gli argomenti. E perché la validità e la bontà degli argomenti siano percepite come tali bisogna già condividere le regole del gioco: la logica. E, lo abbiamo capito, logica e politica – specie dalle nostre parti – sono mondi paralleli, binari che non si incontrano che per caso, a volte, di passaggio. Una bugia poi raramente è un sistema, una ideologia, senza verità assolute: senza colpire queste ultime, è inutile attaccare le bugie. O meglio: si può (si deve) fare, ma se resta l’impianto di fondo resta la base su cui quelle bugie, anche le prossime, si reggono.

Il tutto poi è terribilmente complicato dal fatto che gli strumenti su cui esprimiamo le nostre critiche – sia alle bugie che alle verità assolute – non hanno più l’autorevolezza necessaria per raggiungere i bugiardi e i difensori delle verità assolute che vorremmo criticare, e raggiungerli come un pugno in faccia, con evidenza e immediatezza, sentendo il peso del colpo. È inutile, per capirci, cercare di usare la logica e i fatti su un giornale X che fa campagna elettorale per Y se si vuole decostruire la narrazione di una qualunque lettera (partito, movimento, leader) che si oppone a Y. Manca il presupposto di partenza: la credibilità di X. Insomma, il problema è che ci mancano le condizioni di fondo per imbastire un discorso critico costruttivo e secondo ragione, temo. Se la campagna elettorale è una schifezza immonda potrebbe essere questa una delle cause più profonde.

Poco più di un pensiero a voce alta messo nero su bianco, naturalmente. Ma l’impressione è che stiamo davvero testimoniando il ritorno delle verità assolute, anche e forse soprattutto come conseguenza del frame adottato dai tutti e tre i principali leader politici in gara (che poi non siano nemmeno loro, a essere davvero in gara, ma che sia percepito come tale è un altro elemento su cui riflettere): il manicheismo di «noi» e «loro», l’idea per cui da una parte c’è un «noi» detentore della verità assoluta e dall’altra un «loro» inevitabilmente e perfettamente bugiardo. Cos’è il «derby» di cui parla Matteo Renzi,

cosa il #vinciamoNOI di Grillo – con annessi processi popolari online agli infallibilmente corrotti, e dunque falsi (le cui ragioni non meritano nemmeno di essere considerate, nel tribunale assoluto della «Rete»), cosa l’eterno dualismo berlusconiano tra «comunisti» e uomini liberi se non appunto il perpetuarsi di un’idea per cui da una parte ci sia la Verità (inconfutabile, inemendabile) e dall’altra le bugie?

Insomma, non è nemmeno più che il flusso comunicativo cui siamo continuamente esposti rende difficile se non impossibile distinguere il vero del falso (come si fa il fact-checking a un presidente del Consiglio che produce n annunci – la maggior parte terribilmente vaghi – in poche settimane, smentendosi e ritrattando continuamente? Come a una opposizione quale è quella di Berlusconi, con un piede nelle riforme e l’altro nelle teorie del complotto e dello sfascio?): è proprio che siamo costretti a preferire il falso al vero, perché almeno del falso possiamo dire che è tale, mentre del vero – sempre declinato al maiuscolo, il Vero – non possiamo più dire nulla, intriso com’è di saccenza, ideologismi e preconcetti da perdere completamente di significato, diventare una bandiera che cambia colore e direzione a seconda di chi la impugna, un camaleonte che si nutre di un sistema mediatico senza credibilità e non fa che produrre inganni, divisioni, incomprensione.

Ecco, fino a oggi se mi avessero chiesto di scegliere tra il vero e il falso avrei, come è logico, scelto il vero. Da oggi, invece, mi viene da preferire il falso. Ed è questa forse la vera antipolitica, il suo perfetto compimento. E il suo più grave annuncio.

Lo spot perfetto

(Da un cittadino di domani, a un cittadino di oggi)

A B. H.

E insomma c’è la televisione, e io la guardo. E alla televisione c’è questo: una pubblicità elettorale. La chiamavano così, prima delle pubblicità elettorali. Quelle di adesso, dico. Quella che guardo alla televisione. Ora le chiamano partecipazioni. Non è che ti vendono un prodotto. Tu sei il prodotto. Quindi partecipi. Non che il prodotto sia diventato umano: è viceversa. Almeno, questo dicono i professoroni. Quelli con la parrucca, credo di avere capito, che mai se ne stanno zitti. Prima che li abbiano messi a tacere, ecco. Anzi, prima che tacessero, come io stesso ho taciuto. Non so se lo avete capito, voi che leggete. Qui un tempo c’è stata una serie di professoroni, e io ero uno di loro, che agitavano il dito indice, come a puntare. Giudicare. Scrutare. Cose terribili, insomma. Cose che adesso sono vietate, e grazie al cielo. Noi che ci piace guardare la televisione: noi non li vogliamo, i professoroni. Ecco, quella è una noia che ricordo di quando ero bambino. Sentire la critica. Quella cosa insopportabile per cui tu provi a fare e arriva uno a disfare. Quella cosa terribile che chiamavano, appunto, pubblicità elettorale. Per quanto fosse perfettamente partecipativa non faceva che mettere dubbi. Ci eravamo convinti fosse quel dubbio, l’indubitabile. La fonte di ogni possibilità di gioia, perfino. E invece era la dannazione. Esempio. La pubblicità elettorale diceva: ecco un milione di posti di lavoro, domani. E subito arrivava qualcuno a contraddire. Diceva: ecco un miliardo per le famiglie. E subito il cinguettare insolente dei battutisti, dei polemisti, dei tuttologi. Ora che tutto si partecipa non esistono più questi distinguo: li riassumiamo in una partecipazione. E chi potrebbe negarla. E insomma ora che guardo la televisione e non so perché vi ho detto perché si guarda la televisione posso dirvi che alla televisione c’è un viso di donna. Bello, penetrante. Che mi guarda fisso. Poi, lentamente, la telecamera arretra. Si vedono le spalle, nude. Coralline, vorrei dire, ma non posso. Arretra ancora, e si intravede l’inizio del seno. L’incavo in cui gli uomini perdono le direzioni, avrei scritto quando volevo essere scrittore, quando ancora non mi ero messo alla televisione. Arretra, e ora il seno è tutto in vista. Non che scandalizzi o che. Quella era l’altra epoca, quella prima. Quella in cui si era ipocriti. Si nascondevano i sentimenti, le cose. Ora non si nasconde niente. Ci mancherebbe: immaginate come si possa costruire una convivenza civile, ma civile davvero, sul segreto. Se quello è il fondamento, tutto scompare. Se quello è l’inizio, è anche la fine. Ecco, lo so che lo sapete. Non ha funzionato. Ma non poteva funzionare, è stato inutile attribuire le colpe. Inutile chiedersi come mai le riforme non si facevano. Non c’era niente da riformare: tutto era da distruggere, questo è il punto. Pochi l’avevano capito. Io no di certo. Ma chi l’ha capito, fortunatamente, ha prevalso. E noi siamo qui davanti alla televisione. Non che prima non ci fosse. È che ve l’ho detto: c’era il dubbio, e si sentiva sempre una voce contraria. Era insopportabile. Abbiamo solo dovuto capire che il problema era la dissonanza e, di conseguenza, rimuoverla. Ora niente stona. Le cose, finalmente, si fanno. I seni, ecco: quelli si vedono. Non che prima non si vedessero, è che insomma lo avete capito: sembrava chissà che cosa. E invece qui se si vuole si può guardare un seno prosperoso, provocante, affascinante, lussurioso con la propria compagna, per partecipare alla collettività. Per essere cittadini davvero. Per civismo. E in tutto questo lei vi dirà, come la mia: lo vedi quel seno? È più bello del mio. Se lo vuoi me lo faccio. E lei se lo fa, come lo farebbe qualunque lei. Per compiacervi. Per sembrare la televisione. E per sembrare me, e noi tutti. È questa la sua preferenza. Quel desiderio di rifarsi il seno, a immagine e somiglianza di ogni seno. Quel suo farsi ripetizione, identità. Uguaglianza. Quale concetto è più nobile? Ed ecco, la telecamera arretra ancora. Lei non ha neanche finito di invidiarle le tette che già sono lontane, si punta altrove. Noi si va al sodo, veloci. Mica si ha tempo da perdere, noi. Se le vuole guardare il seno, perfino rimpiangerlo, lo faccia. Ma non lo farà. Quello è un pensiero antico, dell’era prima. Se lo vuole, il seno è suo. Partecipazione, cazzo. Tutto, subito. Ora. La telecamera, dicevo, arretra. E si scopre la pancia, piatta. Perfetta. È un bel corpo, liscio. Lei si accarezza. Squilla il telefono, poi subito smette. Ha capito. È come la mia, dice lei, entusiasta. Siamo uguali, dice ancora, mentre l’obiettivo fissa la pelle. Questa è politica, penso in un lampo. È come una realizzazione, un’epifania, avrei detto. Ora niente si scopre, quindi non è possibile. Ma quello sarebbe, in un’altra era. Una pancia, ma perfetta. La mia, la tua, tutte. La condivisione. Di tutto, ora. La perfezione, ve l’ho detto. Lei dica quello che vuole, aggiunge solo ovvio all’ovvio. Non c’è bisogno di dire. Dicendo ci si espone alla contraddizione. Il silenzio invece è sempre assoluto. Muore in se stesso, e per questo vive per sempre. Per questo non c’è bisogno di parole, nella nuova politica. Ci sono solo gesti, azioni, fatti. Niente parole. Basta linguaggio, basta. Corpi, la politica è fatta di corpi. Quella nuova, che voi non conoscete. Ed eccomi, davanti alla televisione a fissare la perfezione. L’assoluto. E il concreto. La politica, e l’estetica. Lei e tutto. Dopo la pancia c’è un ginocchio, e il ginocchio ci innervosisce. La regia vi indugia per poco, ma è abbastanza da rovinare l’atmosfera. Quel ginocchio è un accidente, e non doveva esserci. Un di più, un inessenziale. Una parola, quasi. È come se quel corpo per un attimo avesse parlato, un ritorno tremendo al passato. Una violenza, inaccettabile. Quel regista sarà licenziato, mi auguro. Lo sarà senz’altro. Lei pensa lo stesso, lo vedo da come subito le si è sbiancato il viso che già aveva preso a indorarsi, prendere il colorito roseo dell’eccitazione e di ciò che vibra. Voglio dire: non serviva, quel ginocchio. E quindi andava rimosso. Anzi: non andava inquadrato. La televisione, oggi, è così: non mostra niente che non sia necessario. Il contingente è confutabile, il necessario mai. E la nuova politica è così: normativa, esatta. Non so perché parlo a questo modo, sarà il retaggio di quand’ero filosofo, di quando dicevamo tutte quelle cose insensate sul senso delle cose. Prima di capire che il senso delle cose sono le cose stesse, nel loro divenire. Soprattutto, nel loro stare per essere. Nel loro innovarsi, continuamente. Poi, in un istante, l’innovazione ha sostituito l’essere. Ed è lì che è morta la filosofia. Quando abbiamo intuito che non serviva nemmeno bandirla, perché era in se stessa superflua. Innecessaria, e quindi non trasmettibile. Non condivisibile. E ciò che non si può condividere non ha senso. E quindi non c’è. Tutto ciò che c’è è passato, ed è quindi errore. Insomma, noi sappiamo tutto, e quello che ancora non sappiamo lo sapremo. Quella fede nel conoscere indubitabilmente tutto, anche ciò che ancora non conosciamo, è la saldatura dei miei occhi allo schermo, il telecomando che non ho bisogno di premere perché sempre inquadra il programma esatto, quello che desidero. Questo è il pensiero: silenzio, e il suo contrario. Del pensiero: azione, voglio dire, e spero mi capiate. Perché non è facile tornare a dire, pur se con uno scritto. Quando hai una pancia così di fronte, tutti i discorsi sono da parrucconi. E io non sono parruccone, né intendo ridiventarlo. Ho dismesso quei panni, e li ho bruciati per sempre. C’è solo da aprire gli occhi, e guardare. E io guardo, e vedo che il ginocchio si sposta, e il petto si rilassa. Guardo lei, e già riprende colore, inarcando un poco la schiena, sul letto, come a offrirsi a se stessa. E quando scompare il ginocchio, ecco apparire l’interno delle cosce, limpido. Fresco, come l’acqua appena sgorgata dalla sorgente. Un fiotto di luce che esce da una porta socchiusa. E la televisione l’apre, e noi vi fiondiamo lo sguardo, e capiamo che lì nel mezzo, dove si dischiude il suo sesso, c’è l’essenza stessa della politica, il senso del nostro vivere. Che è un convivere, sempre, immediatamente. Ora che guardo quel sesso aprirsi davanti ai nostri occhi; ora che sento lei ansimare, toccandosi; ora capisco che non c’è nemmeno bisogno di uno slogan, di un nome per il partito, di un qualunque senso di appartenenza. So già quello che ancora non so: so già che la mia partecipazione è per loro, cioè per me stesso. Per il partito, questo sesso che sento pulsare e subito accordo a lei, in un gemito. La televisione indugia, io divento lei. E la televisione, e il sesso, e la politica. Esprimo la mia preferenza, di getto. Non sono mai stato così felice del mio voto.

Renzi e il dissenso

Si possono definire i critici «gufi e rosiconi», caro Matteo, e intellettuali come Rodotà e Zagrebelsky «professoroni o presunti tali» (sì, anche invece di rispondere nel merito alle critiche). Si può tirare in ballo il doppiopesismo della sinistra sfoderando l’arma derisoria per tutte le stagioni, i «girotondi». Si possono annunciare infinite promesse – ogni volta che apro il giornale ne trovo di nuove – e poi minimizzare se le date slittano e i conti non tornano (dicendo con fastidio, invariabilmente, «i soldi ci sono»). E si può anche dipingere un mondo in cui da una parte ci sei tu, l’antisistema, che vuole cambiare tutto e dall’altra «l’establishment, il sistema» – parola di Cazzullo, nell’intervista odierna – che per definizione invece resiste, si oppone, è «palude», un magma indefinibile di forze tutte conservatrici e – guarda caso – tutte dissidenti, come se in Italia ci fosse una opposizione unita, unica, solida, il cui unico collante sia non cambiare assolutamente nulla (non che non ci siano i conservatori, anzi: è che io dovunque mi giri sento al contrario proclami di voler cambiare tutto, proprio come quelli di Renzi). Ma se lo fai, caro Matteo, poi non lamentarti se parliamo di autoritarismo, se pensiamo che non è solo la comunicazione ma lo stile di leadership politica ad accomunarti alla «destra» (sì, anche la postideologia si può abbracciare in modo ideologico – e sarebbe da ricordarlo pure a Galli Della Loggia, che nell’editoriale di ieri sembrava dimenticarlo), quella (pessima) che abbiamo conosciuto in Italia: la lingua, bruttissima, è proprio la stessa; un misto di arroganza e denigrazione per chi non la pensa al tuo modo che francamente speravo si potesse evitare di riproporre in una leader che si vorrebbe tutto nuovo (io ancora non ho capito dove starebbe la novità), e soprattutto che dovrebbe condurre a «cambiare verso» proprio a partire dall’educazione, e dunque dalla cultura. Ce n’è stato un altro negli ultimi vent’anni, Matteo, che è arrivato al potere con quella di travolgere lo status quo, e di travolgerlo subito, ma solo ed esattamente nel modo in cui voleva lui. Anche lui faceva straw men di tutti quelli che si opponevano («comunisti!» – che dici, ci arriverai anche tu?). E anche lui diceva che prima che alle parti sociali e ai politici e ai giornalisti parlava ai cittadini. Bene, vorrei ricordarti che – nonostante un impero economico – non ha funzionato, e personalmente ringrazio il cielo. Ma non, caro Matteo, perché resisto al cambiamento, perché «gufo», «rosico» o mi piace la «palude» da cui tu vorresti fuggire a «piè veloce»: perché resisto al metodo con cui viene proposto. E il metodo, di cui il linguaggio trovo sia una parte essenziale, viene prima del contenuto. Più che di correre, lanciare ultimatum e snocciolare emergenze, c’è bisogno di recuperare una sana normalità nel modo in cui si argomenta e discute di politica e di temi pubblici in questo paese. Ecco, Matteo: tu da questo punto di vista mi sembri perpetuare l’«anomalia». Di conseguenza, io perpetuo il mio dissenso.